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Infermieri in corsia

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Solamente negli ospedali pubblici italiani mancano all’appello 30.273 infermieri, una carenza che diventa quasi emergenza al Sud se si pensa che oltre un terzo del “buco” nelle piante organiche, 12.447 professionisti, coinvolge le strutture del Mezzogiorno.

Il grido di allarme è lanciato dalla Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi) che ha effettuato un monitoraggio in tutte le regioni: in Campania servirebbero 3.326 infermieri in più negli ospedali, numero superato solamente da Lombardia (3.981) e Lazio (3.903). Però, nel rapporto tra posti letto attivi e infermieri in servizio, l’insufficienza più grave è quella campana.

Non se la passa bene nemmeno la Sicilia, che conta 3.030 infermieri in meno rispetto allo standard previsto per legge, cioè tre infermieri per ogni posto letto.

Nella classifica segue ancora una regione del Sud, la Puglia: mancano 2.647 professionisti. Situazione al limite della crisi anche in Calabria, dove si calcolano almeno 1.079 caselle vuote, e Abruzzo (-1.019).

Se si considera che, nonostante il maggior numero di strutture e posti letto, in Piemonte la carenza è di 1.541 operatori, in Toscana di 1.575, in Emilia Romagna di 1.666 e in Veneto di 1.839, è evidente che è il Mezzogiorno quello più penalizzato.

Una emergenza nell’emergenza. Se si allarga il discorso anche alla medicina territoriale e non solo a quella ospedaliera, la voragine si allarga: Fnopi calcola 63.322 infermieri in meno rispetto alle reali esigenze, con il Mezzogiorno sempre in cima alla graduatoria con 23.495 posti vacanti, oltre un terzo.

«Senza una soluzione alla carenza di organico chi rischia di più è l’assistenza, ma anche l’applicazione del Pnrr che punta tutto sull’assistenza territoriale», scrive nella relazione la Federazione. «Eppure – rileva ancora Fnopi – quella dell’infermiere è la professione del futuro e lo è con maggiori responsabilità, specializzazioni e infungibilità della professione. All’estero tutto ciò c’è già, e gli infermieri, ad esempio in Spagna, Francia, Regno Unito, sono anche prescrittori di farmaci non specialistici e di presidi sanitari. Che sia la professione sanitaria del futuro è evidente: nel 2020 è stata l’unica laurea tra le sanitarie che ha visto aumentare le domande di quasi l’8% contro una diminuzione, più o meno evidente, delle altre».

Il rapporto infermieri-abitanti in Italia è di 5,5 ogni mille abitanti, uno dei più bassi d’Europa secondo l’Ocse. Il rapporto infermieri-medici, invece, dovrebbe essere secondo gli standard internazionali 1:3 ma è di 1:1,5.

«L’infermiere – si legge ancora – assicura il buon andamento delle strutture anche evitando eventuali carenze o atti impropri di altre figure, ma deve essere supportato da un organico numericamente e professionalmente efficiente e dotazioni all’altezza di un’assistenza di qualità».

Nell’intero comparto “sanità” le differenze a livello di organici tra Nord e Sud sono macroscopiche: nelle regioni settentrionali per ogni mille abitanti ci sono 12,1 dipendenti; nel Mezzogiorno la media si abbassa drasticamente, sino a 9,2 dipendenti ogni mille residenti. Se la Puglia avesse avuto le stesse risorse dell’Emilia Romagna e avesse, quindi, potuto mantenere lo stesso rapporto dipendenti/residenti, oggi avrebbe 16.662 medici, infermieri, amministrativi in più. In Puglia, infatti, dove si conta una popolazione di 4,1 milioni di abitanti, il personale sanitario a tempo indeterminato impegnato negli ospedali supera di poco le 35mila unità; in Emilia Romagna (4,4 milioni) i dipendenti sono invece oltre 57mila, in Veneto (4,9 milioni) quasi 58mila, in Toscana (3,7 milioni) sono quasi 49mila, in Piemonte (4,3 milioni) sono 53mila, non parliamo della Lombardia dove si sfiora le 100mila unità. La Campania, che fa 5,8 milioni di residenti, può contare soltanto su 42mila operatori sanitari, persino il Lazio (5,8 milioni di abitanti) ha appena 41mila dipendenti a tempo indeterminato al lavoro nella sua sanità. Come si può chiedere alla Puglia, a quasi parità di popolazione, di riuscire a svolgere lo stesso numero di esami e visite mediche che si riescono a fare in Emilia Romagna che ha 22mila lavoratori in più?

La fotografia è immortalata dalla Corte dei Conti: «Negli ultimi due anni – scrivono i giudici contabili – sono divenuti più evidenti gli effetti negativi di due fenomeni diversi che hanno inciso sulle dotazioni organiche del sistema di assistenza: il permanere per un lungo periodo di vincoli alla dinamica della spesa per personale e le carenze, specie in alcuni ambiti, di personale specialistico. Come messo in rilievo di recente, a seguito del blocco del turn-over nelle Regioni in piano di rientro e delle misure di contenimento delle assunzioni adottate anche in altre Regioni (con il vincolo alla spesa), negli ultimi dieci anni il personale a tempo indeterminato del Sistema sanitario nazionale è fortemente diminuito. Al 31 dicembre 2018 era inferiore a quello del 2012 per circa 25.000 lavoratori (circa 41.400 rispetto al 2008)».


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