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FRA i tanti paradossi della riforma Calderoli sull’autonomia differenziata ce n’è uno che colpisce perché introduce, in Italia, una “differenziazione” non solo basata sulle Regioni ma sui settori e, quindi, sui diritti: se poi, questa operazione, avviene sulla sanità (e su uno dei diritti più importanti garantiti dalla Costituzione), quello alla Salute, il danno è addirittura al quadrato, se non al cubo. Dal momento che non solo “cristallizza” le attuali differenze fra Nord e Sud ma tende, se possibile, ad aggravarle ulteriormente, ampliando le distanze fra i cittadini che hanno bisogno di curarsi a Napoli o a Reggio Calabria e quelli, che invece, possono ricoverarsi a Milano o Bologna.

Ancora una volta, forse, occorre partire dai numeri per tentare un’operazione verità sul federalismo in salsa leghista, senza cadere nella trappola dei pregiudizi o delle bandierine politiche. L’errore di partenza lo ha commesso, ancora una volta, il Comitato dei saggi istituito per definire i Livelli Essenziali delle Prestazioni, i famosi Lep, che dovrebbero essere garantiti per tutti gli italiani indipendentemente dalla residenza. Come a dire: le Regioni possono pure gestire una o tutte le 23 le “materie” previste dalla riforma del titolo V, ma i servizi essenziali, in Italia, dalla sanità all’istruzione, non possono scendere al di sotto di una determinata soglia sia qualitativa sia quantitativa. Tutto bene, almeno sulla carta. Poi, però, qualcosa si è rotto dal momento che il Comitato Lep ha ritenuto, un po’ a sorpresa, di escludere dalla sua analisi (peraltro mai portata a termine, nonostante la scadenza fissata ad ottobre scorso) proprio il settore della salute, sicuramente uno dei più importanti per i cittadini.

La spiegazione? Semplice. In questo settore, hanno spiegato gli esperti, già sono operativi i cosiddetti “Lea”, i Livelli Essenziali di Assistenza, sarebbe un inutile esercizio produrre nuovi parametri. Sarà. Ma l’impressione è che si sia trattato ancora una volta di una pericolosa “scorciatoia” che magari è servita ad accelerare l’iter dell’approvazione della riforma Calderoli a Senato ma che, nella sostanza, non solo non scioglie i nodi dell’autonomia ma rischia, addirittura di aggravarli. Sarebbe stato sufficiente, giusto per ragionare con i numeri alla mano, dare un’occhiata alle tabelle sui Lea elaborate dal Ministero della Salute proprio per valutare l’adempimento delle Regioni nell’erogazione dei servizi nella sanità in Italia. Un’analisi che prende in considerazione ben 34 indicatori, ripartiti tra attività di prevenzione collettiva e sanità pubblica, assistenza distrettuale e assistenza ospedaliera.

Il recente report dell’Osservatorio Gimbe, previa analisi dei 10 monitoraggi annuali del Ministero della Salute dal 2010 al 2019, ha allargato l’analisi agli ultimi dieci anni. Ed ha scoperto che in testa alla classifica dei Lea troviamo proprio le tre Regioni (Emilia, Veneto e Lombardia) che hanno avanzato le maggiori richieste di autonomia. Nel gruppo di testa non c’è nessuna regione del Sud. Anzi, per la precisione, delle 14 Regioni che hanno documentato la situazione dei Lea e che risultano perciò adempienti, ci sono solo tre amministrazioni del Sud (Abruzzo, Puglia e Basilicata) e tutte a fondo classifica. La conclusione del presidente del Gimbe, Nino Cartabellotta, è categorica: “In Italia, alla maggior parte dei residenti al Sud in sanità, non sono dunque garantiti nemmeno i Lea”.

Ma non basta. C’è un ulteriore elemento di preoccupazione. Infatti, nel testo approvato al Senato il capitolo dedicato al finanziamento dei Lep continua ad essere molto vago, nonostante l’emendamento di Fdi che di fatto prevede che per ogni euro dato ad una Regione per le materie che chiederà di gestire autonomamente dovrà essere erogato lo stesso importo all’amministrazione che decide di non percorrere la strada della devoluzione. Il tutto, però, ha precisato il Mef, il ministero dell’Economia, dovrà avvenire a invarianza di bilancio. Come a dire, senza intaccare i saldi della finanza pubblica. E allora, non si capisce in che maniera si potrà intervenire sui Lep per ridurre le diseguaglianze regionali. Un nodo ancora più intricato per quanto riguarda il settore sanitario, dove già i Lea registrano forti differenziazioni che sono rimaste praticamente inalterate negli ultimi dieci anni.

Il risultato plastico di questa situazione si trova nell’analisi della cosiddetta mobilità sanitaria interregionale. Tecnicamente, si legge nel rapporto che la Fondazione Gimbe ha presentato in Senato, “viene distinta in mobilità attiva (una voce di credito della Regione che identifica l’indice di attrazione) e mobilità passiva (una voce di debito che rappresenta l’indice di fuga da una Regione). Annualmente vengono effettuate compensazioni finanziarie tra Regioni su 7 flussi finanziari: ricoveri ospedalieri e day hospital (differenziati per pubblico e privato accreditato), medicina generale, specialistica ambulatoriale, farmaceutica, cure termali, somministrazione diretta di farmaci, trasporti con ambulanza ed elisoccorso. Circa il 75% delle compensazioni è relativo a prestazioni di ricovero ospedaliero e day hospital”.

Dall’analisi della mobilità attiva e passiva emerge la forte capacità attrattiva delle Regioni del Nord, cui corrisponde quella estremamente limitata delle Regioni del Centro-Sud. In particolare, un recente report della Corte dei Conti ha documentato che nel decennio 2010- 2019, 13 Regioni, quasi tutte del Centro Sud, risultano essere le meno attrattive per i cittadini e hanno accumulato un saldo negativo pari a 14 miliardi di euro. Con l’attuale versione dell’autonomia differenziata il gap potrebbe aumentare.


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