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Esistono due materiali: le idee e le parole.

Come i veri tesori, diventano vivi soltanto quando smettono di essere tenuti sottochiave e vengono esposti. 

Come i veri tesori, non possono essere valutati secondo un’unità di misura oggettiva, un tanto al chilo. 

Hemingway dimostrò che sei parole, “Vendesi scarpe per bambino. Mai usate”, possono contenere un romanzo, mentre certi tomi di seicento pagine non contengono nemmeno una storia.

Tutto dipende dall’avere o meno il dono di questi tesori e dalla capacità di saperli usare.  

Come si fa a stabilire il giusto compenso per chi ha una buona idea? Quanto dovrebbe essere retribuita una frase che arrivi quando e là dove serve?

Per valutare il peso di questi materiali, ci si può affidare soltanto a una sorta di bilancia interna che, purtroppo, non essendo visibile, ha favorito un mercato dello sfruttamento e dell’abuso. 

Le menti di chi è in grado di pensare vengono impiegate quasi fossero bicipiti, le meningi sforzate fino allo sfinimento. È un caporalato intellettuale nel quale, al posto delle arance, viene chiesto di raccogliere idee e parole. La paga è di un euro a cassetta raccolta. Il caporale chiede di continuo di raccoglierne altre; d’altronde non sembrano mai così pesanti a chi non le porta. Le minacce del caporalato manuale si traducono, nel caporalato intellettuale, in lusinghe e complimenti. Le prospettive di crescita però vengono quasi sempre disattese per ragioni occulte, spesso per favorire qualcuno senza merito, qualcuno privo di idee e di parole proprie, che arriva solamente a copiare quelle degli altri, a volte copiando anche male.

Ciò nonostante, al dipendente è richiesto anche il sorriso costante. Come le mucche producono più latte se nella filodiffusione delle stalle viene trasmessa la musica, così il sistema chiede di essere felici: in un ambiente felice si produce di più.

Quando i mass media affrontano l’argomento, sentiamo puntualmente dire che «Queste forme di sfruttamento tolgono dignità al lavoratore».

È un’espressione che trovo sempre più inopportuna, come se fosse in discussione soltanto la dignità del lavoratore.

Cominciamo a dire che queste forme di sfruttamento eliminano sì la dignità, ma quella del datore di lavoro: la dignità di un vero lavoratore resta sempre e comunque intatta. 

Dal linguaggio può e deve cominciare il cambiamento. 

Cominciamo a chiederci che dignità c’è in coloro che, per il proprio sfrenato guadagno, si approfittano dell’ingenuità e della necessità degli altri.

Cominciamo a parlare della povertà peggiore che esista: la miseria di chi possiede tanto e non è niente.


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