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C’E’ UN’ITALIA che muore, in silenzio, con rassegnazione, conservando il pudore e la dignità, senza ricorrere agli strilli, al rumore, alle grida della protesta. In punta di piedi, nel fragore di un mondo dove ogni cosa si rincorre, lascia traccia, si specchia in se stesso, nella sua vanità. Sono le città invisibili, quelle vere. Anzi, i paesi o i borghi come li chiamano oggi, quasi per dar loro una carezza e per esorcizzare gli sfregi del tempo.

Per gli studiosi il fenomeno ha un nome che ha l’amaro di una sentenza inappellabile: spopolamento. Muoiono anche i paesi nell’Italia di oggi, narcisista e pigra, presuntuosa e leggera, incapace di scavare dentro le proprie radici, nel passato. Nei presepi dell’Appennino del Centro e del Sud Italia, la vita evapora lenta, senza quasi farsene accorgere. All’indomani del 1861, erano centri con più abitanti di oggi. La Grande Depressione economica del 1929, il crollo del prezzo del grano, i nuovi mondi che avevano fame di braccia e offrivano opportunità, hanno inferto il primo colpo. Poi, gli ultimi trent’anni hanno fatto il resto.

Molti di questi paesini sono nati sui crinali delle montagne per sfuggire ai saraceni e agli altri pericoli che arrivavano dal mare. Ora è iniziato il cammino inverso. Ma non si torna sulla costa, si va via lontano, a giocarsi sul tavolino della storia, la sorte della propria esistenza.

Ai paesi invisibili non ci fa caso nessuno più. Solo chi li lascia si porta nel cuore una ferita dolorosa e la smania di ritrovare, chi sa dove, ancora sapori, suoni, parole, profumi, colori che ricordano quelli che si sono lasciati alle spalle. Quando non è il terremoto o la fine di un’attività economica. a cui si stava aggrappati come quei tetti rossi sui cocuzzoli, è la povertà silenziosa a scavare dentro, a sgusciare l’anima di una comunità. Un vecchio e triste copione: chiude prima una fabbrica, poi la scuola, poi gli uffici delle Poste, delle banche. Poi l’edicola, il negozio di generi alimentari, il benzinaio, il farmacista, la caserma dei carabinieri. Non nascono più bambini e anche chi è partito non ci torna con puntualità. Un po’ perché non saprebbe come viverci; un po’ perché il passato è un bagaglio ingombrante e si fa fatica a trascinarlo se bisogna pensare al futuro. Così, non in un giorno, ma come in una agonia, i paesini si spengono, diventano cartoline spettrali, posti per fantasmi e nostalgici. Come una sorgente che all’improvviso si secca. Una sterilità sociale irreversibile. Le stradine diventano mute, l’erba colora ogni spazio e muro. Poi cala il silenzio. Il silenzio dei vinti. Di chi si porta dietro l’angoscia e il peso di aver smarrito le radici. E le ali spuntate, per forza e necessità, da sole non bastano a dare tregua.

Dell’Italia invisibile si parla uno o due volte all’anno: quando i numeri ricordano a tutti che decine di paesi hanno perso figli e identità. Una statistica. Una delle tante. Inutile e atroce. Come se i fantasmi dei borghi si potessero davvero contare. «Ma tutto passa e tutto se ne va», dice la canzone dedicata al distacco dal paese adagiato sulla collina. Tutto passa. Tutto. Tranne questo magone.


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