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Illustrazione di Roberto Melis

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Nell’innaturale bonaccia di questi anni, abbiamo perso qualcosa che un tempo ci è stato d’aiuto: il senso della catastrofe. Quell’idea di un continuo tramontare, che riusciva a salvarci dai nostri ragionamenti rettilinei, dall’illusoria certezza dei loro fondamenti. Che li metteva in dubbio, che faceva emergere la loro modesta e sincera complessità.

Ora invece navighiamo in pensieri programmati, che occupano il futuro, che contraggono debiti con il tempo futuro, indebolendo le sue componenti di stupore quasi prodigioso.

Il pensiero così sta agonizzando. Disabituato alla catastrofe, all’abisso che è svanito in un deserto apparentemente lineare, è diventato come un deserto pacificato dai barbari. Si satura di stimoli eccessivamente concludenti, sensati fino all’inverosimile, e retrocede, si placa, fino a collassare.

Solo nell’espressione conserviamo l’illuminazione di ciò che ci ha spinto ad essere uomini. Nel linguaggio, si esprime ancora la spinta di quella voragine che ci contiene, quell’enorme sfondo dislessico, quell’elemento originario dal quale prendiamo spunto: la follia.

Parlare è un atto di follia. È l’esplicazione di un difetto, di una mancanza che giova, di un orco che ci sta alle calcagna e guadagna terreno.

Ogni parola che diciamo: come stai? ti trovo bene? Oggi piove, peccato non sono arrivato in tempo, esprimono questo: il prodigio di una luce che pensiamo perduta ma che, sebbene sfocata, continua a spingere da chissà dove.

È questo lo splendore delle parole. La loro diretta derivazione dalla follia che ci sorregge, che ci libera dai nostri legami con le eccessive accortezze della vita. Ogni discorso non è mai banale. Non tradisce squallore (anche quelli giudicati squallidi), perché si esprime, rinnova cioè un patto con il bagliore incoerente della vita.
Andando dietro all’essenza delle parole troviamo sempre un miracolo di significati. Qualcosa che brilla come un faro in mezzo ad un nubifragio.

Ma anche in questa casa, che ancora ci sostiene, possiamo vedere, se ispezioniamo con attenzione, delle scissure, delle crepe, come appaiono sulle pareti dopo un terremoto. È proprio il linguaggio l’ultima superficie di conquista di questo nuovo mondo geometrico e spietato. Attraverso la falsa lingua economico-finanziaria, mediante l’ignobile lessico del marketing, anche il linguaggio (non tutto, certo) sembra assopirsi. Si allontana dalla sua radice.

Dai suoi canali tenebrosi, e viene trascinato verso un uso finalistico, verso un traguardo ingannevole che come risultato ha quello di perdersi definitivamente. Solo nei sobborghi della vita, fra i malati, nei discorsi dei folli, nella perdita di sé, nella malattia, nelle poche parole dette da chi svolge una vita semplice, si conserva nella sua potenza. Nella sua smisurata vastità.


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