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Illustrazione di Roberto Melis

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La mia lingua ha segnato il mio destino. Ho preso coscienza molto presto del fatto che la lingua è la vera patria di un uomo, la patria più autentica. Sono stato in bilico per anni, soprattutto quando mi gravava sul collo l’obbligo del servizio militare, se restare in Italia o andarmene altrove.

Come il personaggio del racconto “Liliana”, anch’io ero terrorizzato: “(…) In fondo volevo restare per scrivere, e temevo che se fossi partito avrei perso definitivamente l’uso della mia lingua e non avrei più potuto fare lo scrittore.

Avevo avuto una conversazione con lo scrittore dissidente sovietico M*, in quegli anni, e avevo appreso che alcuni fuorusciti che avevano abbandonato la Russia per riparare in Occidente, si erano isteriliti come scrittori e come poeti. Fuori dalla patria, avevano perso il fertile humus linguistico che li alimentava e dentro cui erano immersi. Me ne spaventai, temevo di diventare arido anch’io, di perdere la lingua, di divenire intrapiantabile come certe piante che muoiono su altri terreni”.

Se lo stile fa lo scrittore, non c’è dubbio che la lingua è il pozzo immenso in cui attinge. Lo sapevo da Dante che avevo letto e riletto fino a bucarmi gli occhi, e lo sapevo dall’amore per le lingue madri dialettali dal cui impasto trae forza quella che per me resta l’idioma più ricco, più prezioso, più fantasioso del mondo.

E se in un passaggio di un racconto sulla gerarchia delle lingue carico di ironia, quella spagnola poteva pretendere di parlare al cuore di Diòs (di Dio), la lingua italiana restava pur sempre quella in grado di parlare al cuore degli uomini.

E proprio perché degli uomini concreti, terreni, e delle loro vicende umane, voleva occuparsi la mia penna, non potevo che usare la nostra di lingua: quella che Dante aveva forgiato col suo duro e caparbio lavoro.

Mi vanto di averne sempre avuto rispetto e nulla ho concesso alle mode e al suo depauperamento. Semmai ho operato una sorta di resistenza e di recupero; di recupero di lemmi cancellati o destinati all’oblio; di toponimi di luoghi e di cose che esistono perché la lingua li rinomina, li conserva, li tiene vivi.

C’è la parola perché c’è la cosa, ma è altrettanto vero che se muore la parola muore pure la cosa. Che ne sanno i milanesi di oggi del Bottonuto? Dove possono topograficamente collocarlo non conoscendo più l’uso della parola? E i miei giovani concittadini acresi che ne sanno della Malabocca e del suo significato, avendo perduto la lingua madre dialettale?

Mentre da un lato si ricordano in pompa magna i settecento anni dalla morte del padre della lingua italiana Dante Alighieri, dall’altro la nostra colta e bellissima lingua viene vituperata, invasa com’è da anglicismi di ogni tipo, banali e spesso fuorvianti, che la immiseriscono.

I francesi sono giustamente molto più orgogliosi di noi a questo riguardo, e mai accetterebbero che sulla insegna di un calzolaio fosse scritto shoemaker.


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