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L'iconica scena di "Misera e nobiltà", con Totò che mangia la pasta sul tavolo

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UN POKER di sapori che ha permesso all’Italia di rialzarsi nel dopoguerra. Pane, pasta, pizza e polenta sono le 4 P che mangiano la quinta: la povertà. Nella Giornata mondiale della pasta, dedicata al piatto simbolo della Dieta Mediterranea, è giusto rendere un riconoscente tributo ai pilastri della nostra alimentazione. Un solo giorno di festa è davvero troppo poco se si pensa, da ultimo, alla primavera del nostro lockdown in cui ogni tinello si era trasformato in una micro-produzione a ciclo continuo di prodotti da forno: sugli scaffali della grande distribuzione, il lievito si è rivelato più introvabile dei Nutella Biscuits, fenomeno assoluto dell’anno prima.

Perché i capisaldi della cucina povera o comunque casalinga sono, tanto più nei momenti critici come quello che abbiamo vissuto e stiamo purtroppo tornando a vivere, un “bene rifugio”: un porto in cui ripararsi. Se stravolgiamo in via eccezionale l’ordine alfabetico, è solo per onorare la Giornata della pasta, appunto: le vendite nel settore sono aumentate del 25% dall’inizio dell’emergenza, cresce l’export ma anche in Italia i consumi segnano un +30%. Il comparto della pasta conta in Italia 112 aziende che impiegano 10.300 dipendenti.

Accanto ai distretti di Gragnano e Puglia, negli anni si stanno consolidando i prodotti a marchio (la cosiddetta private label dei grandi gruppi della Gdo) spesso prodotti dalle stesse aziende leader, ma continua a resistere, parallelamente, la rete dei pastifici artigianali. Quello della pasta è un mondo caleidoscopico, fatto di vari formati (in lockdown colpì l’irreperibilità delle pennette e i consumatori si divisero tra filo-rigate e filo-lisce…). In principio fu la spaghettata di “Miseria e nobiltà”, poi passando dal “maccherone” di Alberto Sordi («io me te magno!») l’elemento principe della tavola italiana ha consolidato un posto primario nell’immaginario letterario e artistico: Francesco Merlo di recente ha ricordato una frase di Prezzolini, secondo cui “addentare gli spaghetti è meglio che leggere Dante”. Perché il formato che connota un Paese intero è proprio quello: pare che la parola spaghetti sia apparsa per la prima volta nel 1824, in una poesia di Antonio Viviani dal titolo “Li maccheroni di Napoli”. Dopo quasi due secoli e svariate rivisitazioni della pasta lunga – dalle linguine al pesto di Genova ai bucatini all’Amatriciana –, le tavole d’Italia, tra casa e ristorante, sono un tripudio di gusti identitari che uniscono un Paese grazie ai fornelli e ai sughi: dai canederli (gnocchi di pane) trentini alla Norma siciliana passando per i tortellini di Bologna e le varie versioni di lasagne, cannelloni e pasticci, senza dimenticare i livelli di qualità altissimi raggiunti negli ultimi anni dalle paste gluten-free, prodotte ormai anche dai grandi marchi con risultati invidiabili e numeri anch’essi in crescita esponenziale.

La lingua italiana omaggia la pasta da ben prima che fosse istituita la Giornata a tema: «Come il cacio sui maccheroni» è la situazione ideale non solo in senso figurato.

E poi c’è la cottura. Gli italiani si dividono tra i fautori della cottura al dente – pare più salutare, ma qui si va nello stesso campo minato del filetto più o meno al sangue – e chi la preferisce ai limiti dello scotto: l’importante è tenersi lontani dalle aberrazioni dei Paesi anglosassoni dove si racconta che la pasta si cala nell’acqua fredda, con esiti prevedibili (una pappa informe e lattiginosa). Una cottura sbagliata è per antonomasia una situazione da evitare, il timing sbagliato del fuori-tempo-massimo, diciamo il contrario del “cacio sui maccheroni”, ecco. “Quella partita fu come una cena con la pasta scotta e la carne dura, ma una magnifica, buonissima torta alla fine” per citare una definizione del compianto Gianni Mura, decano del giornalismo sportivo e gastronomico, su Italia-Germania 4-3. La frittata di pasta è un piatto cult che anticipa la scuola di pensiero del non-si-butta-via-niente, e persino il termine pastiera deriva dal campano «pasta di ieri»: prima di introdurre nella ricetta il grano, infatti, si usava la pasta del giorno prima.

E il pane? Visto che il cibo è letteratura e storia, basti dire che «il miglior modo per conoscere un territorio è introitarne il suo cibo o, ancor meglio, mangiare il territorio» (Italo Calvino, “Sotto il sole giaguaro”) e in particolare – ammoniva Karl Marx – «non si conosce un Paese se non si è mangiato il suo pane o bevuto il suo vino». Mario Soldati si spingeva ancora oltre: “Un popolo lo si conosce se si frequenta le sue cucine”. Proprio con il pane gli italiani hanno da sempre un rapporto di assoluto rispetto, ben lontano dalle moderne esagerazioni salutiste dei no-carb: «Carmina non dant panem», ammonivano i più prosastici dei latini anticipando di un paio di millenni il Tremonti del motto (poi rinnegato) “con la cultura non si mangia”. E il binomio panem et circenses continua a essere usato per demolire la demagogia: da un lato l’utile, dall’altro il dilettevole. Il pane è sacro. Betlemme in lingua ebraica significa “città dei pani”, e al di là del rito dell’ostia basti qui ricordare che Bergoglio – il primo papa a non avere un cuoco personale e a mangiare in mensa – oggi alterna riso e pasta in bianco ma a Buenos Aires amava mangiare empanadas: fagottini di pasta ripieni di carne. E rieccoci tornati alla pasta, non a caso il primo piatto… Il pane è la base rassicurante della Nutella morettiana, la fetta con la marmellata preparata e messa vicino al letto dei suoi bimbi da Sylvia Plath poco prima che si suicidasse mettendo la testa nel forno (nemesi), la “prosaica solidità” che (di nuovo Calvino) “può dare alla luce la creatività. La fantasia è come marmellata; deve essere spalmata su una solida fetta di pane. Altrimenti resta una cosa informe… della quale non ci si può fare nulla”.

Se la pasta è il primo, il pane è proprio la vita, la salvezza durante i razionamenti della guerra, il bene di prima necessità: «Durante la Grande Depressione del ’29 in Central Park i piccioni portavano le briciole di pane ai passanti» (battuta di Groucho Marx). Lo spazio di questo articolo sta finendo e sono rimaste ancora due P (è colpa del forno: sembrava di sentire gli odori). In linea con lo spirito di questa testata prim’ancora che con l’ordine alfabetico, rimaniamo in ambito gastro-letterario con Matilde Serao che chiamava la pizza «il pronto soccorso dello stomaco». Non tanto la pizza in sé, ma «l’arte dei pizzaioli napoletani» è da tre anni patrimonio immateriale Unesco. Il termine “pizza” compare per la prima volta in un manoscritto del 997 d.C. conservato nella cattedrale di Gaeta: mille anni dopo, in Italia ogni giorno vengono sfornate 8 milioni di pizze da 105mila pizzaioli, 200mila nei weekend (dati Cna 2018): con il lockdown, sono cifre di sicuro da rivedere, e adesso si attende un ulteriore crollo con la chiusura a mezzanotte. Un danno per la scrocchiarella romana, la napoletana (la leggenda sulla Regina Margherita è tanto nota che non serve neanche citarla), adorabile fritta, la pinsa, la pizza al taglio, in pala… A Brooklyn c’è persino un Museo della Pizza (MoPi).

Un bene da musealizzare sarebbe anche la polenta: il disco di farina di mais è una diade con gli osei (cacciagione) al nord, ma i non polentoni – appunto – non lo disdegnano abbinato a salsiccia, funghi, baccalà. Il trionfo dell’italico meltin’ pot, che infatti significa pentolone: dove tutto si mescola per moltiplicare il gusto, più che imbastardirlo.


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