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Karl Popper (foto da sociologicamente.it)

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7 minuti per la lettura

È capitato a tutti di sentirne più d’una. Gli americani non sono mai sbarcati sulla luna. Il traffico di droga internazionale è controllato dalla CIA. Lady Diana è stata assassinata. Gli attentati dell’11 settembre alle torri gemelle e a Strasburgo sono stati organizzati rispettivamente dai governi americano e francese. E ancora, le  scie bianche lasciate dagli aerei sono sostanze chimiche diffuse nel cielo per ragioni tenute segrete. Esiste un complotto sionista  a scala mondiale.

Lo Stato e le case farmaceutiche nascondono la pericolosità dei  vaccini. Il riscaldamento climatico  è una tesi inventata da politici e scienziati per servire i loro propri interessi. E l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo. Sono solo alcune delle  teorie cospirazioniste  di cui è più frequente sentir parlare.

Forse ci aveva visto giusto Karl Popper che nel suo ‘La società aperta e i suoi nemici’ parla dell’ossessione per il complotto come di una cosa nata con la nascita stessa dell’essere umano, e definendola una teoria cospirativa della società che risiede nella convinzione che la spiegazione di un fenomeno sociale consista nella scoperta degli uomini o dei gruppi che sono interessati al verificarsi di quel fatto e che hanno progettato o congiurato per promuoverlo. Ponendo in questo modo anche le basi per un’interpretazione della perdita di fascino della scienza e della ricerca che sembra aver colpito anche la nostra società.

Ma da cosa nasce questa idea del complotto? E perché è così facile che prenda piede? Intanto va osservato come, nonostante le condizioni di benessere generale nella società contemporanea siano – in gran parte del mondo – di gran lunga superiori a quelle solo immaginate in epoche precedenti, oggi uno dei sentimenti maggiormente avvertiti a livello collettivo sia in realtà quello dell’insicurezza, frutto di un patchwork di fattori che alimentano paure di ogni tipo.

A ciò si aggiunge una crisi dei fondamenti scientifici partita dalla fine del IXX secolo, dovuta in gran parte all’abbandono delle ambizioni di perfetta neutralità dell’osservatore nel processo di conoscenza e, contestualmente, alla presa d’atto dell’impossibilità di restituzione di fatti certi e oggettivi a scapito di più modeste affermazioni caratterizzate da indeterminazione, probabilità e relatività. Siamo insomma difronte ad una sorta di paradosso della modernità: l’equazione con la quale veniva postulata una relazione di proporzionalità diretta tra conoscenza e certezza, viene invece a inficiare i risultati proprio al crescere dee percorsi di conoscenza.

Una iattura, per certi punti di vista (o una luce che dovrebbe accendersi in molte menti, ma questo è un altro discorso). Il mix di queste due macro-situazioni – l’insicurezza e le conseguenti paure da un lato, la perdita di autorevolezza da parte della scienza dall’altro – costituiscono le basi di quella che molto efficacemente Ulrich Beck ha definito “società del rischio”. Allora, è forse proprio in questo scenario complessivo caratterizzato da un’assenza di solidi ancoraggi di senso che proliferano spiegazioni alternative finalizzate alla comprensione di una realtà percepita, con timore, fuori controllo. Dove non arriva la razionalità forse possono risolvere magiche elucubrazioni onnicomprensive, rassicuranti a modo loro.

È questo, in sintesi, il brodo primordiale, quel grande background emotivo nel quale si alimenta – per far fronte alla paura e all’insicurezza che generano angoscia – ogni sorta di cospirazione o di complotto possibile e immaginabile. Alla base del complottismo, insomma, c’è sempre il convincimento che le cose non siano quelle che scaturiscono dalle narrazioni ufficiali. Anzi. È radicata l’idea che esista un’élite, ristretta ma con ramificazioni capillari in tutti i livelli della società e in tutto il globo, che controlla le istituzioni per mantenere saldo il potere nelle sue mani, fabbricando di volta in volta narrazioni per la gente comune in modo che non colga le reali intenzioni né
tantomeno sospetti della sua stessa esistenza.

L’impressione è che le spiegazioni più evidenti di fatti sociali a qualcuno paiano non essere soddisfacenti; e molto spesso la ragione sta nel fatto che accettarle faccia, in qualche modo, male.

Ma ci sono elementi comuni nelle persone che fanno più spesso uso della categoria del complottismo per spiegare a modo loro alcuni fatti che accadono? Intanto va considerato che i sostenitori delle teorie del complotto sono in aumento, e costituiscono una comunità alquanto eterogenea (almeno dal punto di vista delle classiche variabili utilizzate nella ricerca sociale). Una recente indagine su un campione della popolazione francese ha messo in luce alcune caratteristiche volte alla possibile definizione di una sorta di idealtipo di complottista: ma se si esclude una maggiore (comprensibile) propensione da parte di chi ha titolo di studio più basso e una tendenza a subire meno il fascino del complottismo al crescere dell’età, non ci sono molte altre certezze. Anzi.

In un’altra ricerca, questa volta riguardante 8 diversi Paesi fra i quali anche Usa e Gran Bretagna, mostra un’interessante relazione fra credenze ai  fenomeni
soprannaturali e teorie del complotto. I più permeabili alle teorie cospirazioniste sono nella maggioranza dei casi gli stessi che credono che si possa parlare con i morti o che pensano che esistano veggenti, persone in grado di predire l’avvenire. Sono anche quelli più inclini a credere nell’astrologia.

L’esistenza della relazione fra credere in spiegazioni non razionali  e teorie del complotto è peraltro confermata dai ricercatori del progetto  Conspiracy, che è finanziato dall’Agenzia Nazionale della Ricerca francese. I sostenitori delle teorie del complotto costituiscono quindi un gruppo sociale eterogeneo, pur con alcune caratteristiche di omogeneità; sono in aumento, e la loro esistenza è una risposta spontanea in qualche modo non controllata a progressive lacune di carattere comunitario, economico e culturale.

Ma c’è di più: qualche ricercatore azzarda l’ipotesi che alla base della tendenza a spiegare gli eventi sociali e storici in termini di segreti e cospirazioni malevole, vi sia una  mentalità teleologica, cioè l’idea che sia necessario attribuire un fine ultimo a tutti gli eventi e alle entità naturali. Insomma, quello che a tutti gli effetti è oramai un vuoto istituzionale, genera risposte praticamente del tutto prevedibili, con conseguenze spesso poco entusiasmanti; una risposta incontrollata a un disagio percepito. Il fenomeno non è un compartimento stagno, tutt’altro; risulta essere organico a una frattura molto più marcata, i cui contorni sono sfumati e hanno a che fare con un malessere sociale generalizzato (perché frutto di situazioni anche molto diverse fra loro). Il complottista si sente tale per differenziarsi, non sentendosi organico nella società, e quindi il suo è a tutti gli effetti un tentativo di ricollocamento in un contesto sociale che, finalmente, lo accolga.

Ma dove sta il pericolo in comportamenti di questo tipo?

Perché il complottismo, in definitiva, può far male? I complottisti non sono pericolosi perché mettono in dubbio. Il dubbio è il fondamento di ogni epistemologia scientifica, e la scienza stessa ha elaborato i propri anticorpi proprio grazie alla falsificazione, al trial & error, e così via. Il vero problema dei complottisti è che mettono in dubbio tutto, disordinatamente, senza metodo né competenze, con un conseguente crollo verticale e inarrestabile di ogni ordine di certezze e autorevolezza. Sullo sfondo, l’etica di una propensione allo sfascio che non lascia spazio ad alcuna ipotesi alternativa di costruzione di solidità.

Alla base di tutto ciò, un vizio di fondo della società contemporanea a forte caratterizzazione liberista, che non solo ha alimentato in maniera indiscriminata un’ideologia del narcisismo barattandola con la realizzazione personale ed esistenziale ma anche ha giustificato un modus vivendi fondato sul vittimismo, spesso unica modalità per sentirsi parte di qualcosa di chiaro, definito, incrollabile. In assenza del quale ci si situa, appunto, in narrazioni differenti, nelle quali tornare a sentirsi qualcuno. Ovviamente, la cultura del narcisismo non è necessariamente l’unica strada possibile per l’autorealizzazione.

I modelli culturali narcisistici vanno compresi e ridimensionati. Per farlo c’è bisogno della proposizione di modelli alternativi e la risposta migliore a una ideologia imperante dell’individualismo non può che essere quella di una cultura dell’alterità. Che il complottismo fosse un fenomeno radicato e molto pericoloso per l’umanità tutta lo aveva capito, da tempo, anche un pensatore fra i più lucidi, Umberto Eco. Nel 2015, un anno prima di lasciarci, aveva tenuto una  lectio magistralis  all’Università degli Studi di Torino dal titolo  ‘Conclusioni sul complotto: da Popper a Dan Brown’. Filosofia della scienza e letteratura assieme, a sostegno di una ricerca di risposte ad uno degli aspetti più controversi della complessità sociale.


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