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Non ho mai avuto dipendenze, prima del crossfit. Mia madre credeva sarei diventato un matematico. La professoressa di filosofia che mi sarei iscritto a Cambridge seguendo le orme di Russell e Wittgenstein.

Oggi: sollevo un bilanciere che infilza dischi di ghisa, lo slancio da terra fin sopra la testa attento a non perdere la curva lombare. Mi aiuta a non pensare, a stare bene.

Tornato a casa, non vedo l’ora che arrivi il dolore, che si espanda dalle gambe alle spalle al punto da non farmi dormire. Non mi guardo allo specchio. Non è quel genere di attività che fai per piacerti. Lo fai perché vuoi sentire la fatica.
Il crossfit sfrutta varie modalità di allenamento.

Quella che preferisco si chiama AMRAP. È un acronimo, sta per: As Many Rounds As Possible. Una serie di esercizi che bisogna ripetere più volte possibile nell’arco di un tempo assegnato. Lo scopo è superare il limite, continuare a spingere anche se il cuore pompa sangue così in fretta che lo vedi scoppiare tra le costole, se respirare diventa un’agonia e se i palmi delle mani si aprono sfregando contro l’acciaio del bilanciere rivelando la carne viva. Ancora una, finché il tempo non scade.

Nel crossfit il riposo non è visto di buon occhio. Per questo mi trovo bene: perché non cambia poi molto tra fuori e dentro la palestra. Dentro: lo stress è delegato ai muscoli. Fuori alla testa.

Mia madre credeva che a trent’anni avrei lavorato al CERN, o nella peggiore delle ipotesi avrei sviluppato software necessari all’elaborazione di calcoli complessi per qualche banca tedesca. La professoressa Cavicchi mi aveva inviato i moduli d’iscrizione.

Oggi batto con i polpastrelli sulle lettere della tastiera. Centosessantamila volte a settimana. E «la mia testa spesso non sa nulla di ciò che la mia mano scrive», come diceva Wittgenstein. Riempio le pagine come fosse un esercizio da ripetere finché il cronometro non si azzera. Al punto che scrivere non è nemmeno più scrivere, ma solo un modo per avvicinarmi al limite. La punizione per essermi negato anzitempo ai numeri e al positivismo logico. Odio impugnare il bilanciere, odio l’icona di Word.

Ma vedo il countdown che continua a scalare, mentre i miei amici che lavorano in banca, persino quelli che insegnano a scuola, stanno pensando di accendere un mutuo. Allora il respiro diventa una lama, il battito accelera sebbene sia seduto su una sedia. Ma mi dico: ancora una. Non riesco a smettere, a volte sperando che il cuore scoppi davvero, che quantomeno consacri col martirio la mia stupida passione.


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