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Il Seppellimento di Santa Lucia di Caravaggio

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Mentre leggete queste parole, la grande tela con il “Seppellimento di Santa Lucia” di Caravaggio è in viaggio su un camion scortato dalla polizia, per Rovereto. Vi chiederete perché da Siracusa, dove sta da quattro secoli, a Rovereto. Cosa spinge un’opera fondamentale così lontano da casa? È l’impegno mantenuto per una grande occasione.

Che cosa accade a Rovereto per una così straordinaria convocazione? A Rovereto c’è il Mart (museo di arte contemporanea di Trento e Rovereto), una grande architettura di Mario Botta, che io presiedo, e la sua nuova stagione intende stabilire collegamenti fra l’arte antica e l’arte moderna. Caravaggio il contemporaneo, in dialogo con Alberto Burri e Pier Paolo Pasolini.

Fra i dipinti siciliani di Caravaggio, secondo Roberto Longhi, il “Seppellimento di Santa Lucia” è il più antico, realizzato successivamente all’ottobre del 1608, dopo l’evasione dal carcere di Malta e l’arrivo a Siracusa, come pala per l’altare maggiore della Basilica di Santa Lucia al Sepolcro, nel sito ove, secondo la tradizione, la santa fu martirizzata e sepolta. La scena sembra collocata negli ambienti sotterranei e bui delle latomie sottostanti la Chiesa, nelle quali si trova il sepolcro della martire.

L’ardita composizione è giocata sulle diagonali, con i due enormi carnefici in primo piano nell’intento di scavare la fossa, che accompagnano lo sguardo dello spettatore verso il corpo esanime della santa, la quale presenta una ferita da taglio sul collo. Gli astanti al funerale, con il vescovo che dà l’estrema unzione alla santa decapitata, sono come schiacciati sullo sfondo, sovrastati da giganteschi muri, che occupano più della metà della tela, attraversata solamente dall’ombra di un arco. La superficie rugginosa e il taglio drammatico della luce accrescono il senso di oppressione e di tensione, che rispecchia lo stato d’animo dall’artista ricercato con un bando capitale e costretto alla fuga, che si trasforma in condizione psicologica.

Siamo di fronte alla tela più imponente del Caravaggio maturo, ossessionato da scene di decapitazione, regista di composizioni complesse in dipinti sempre più silenti e spirituali. La sua forza nuova emerge soprattutto attraverso i rapporti tra i personaggi e lo spazio cupo del fondo, nella luce strisciante sulla materia densa e sporca della tela e del colore. Nel muro sul fondo della scena, in quella materia sofferente che occupa quasi i due terzi del dipinto senza nessuna figura, si ha la percezione della forma che si sgretola, che diventa “non-forma”, e vi possiamo riconoscere un eloquente esito espressivo assimilabile all’Informale.

In particolar modo, la dura potenza di questo linguaggio rende inevitabile l’accostamento ad Alberto Burri, che fa della manipolazione brutale della materia una delle sue principali cifre stilistiche. Nella sua poetica, muovendosi verso un nuovo equilibrio formale, è sempre presente il concetto di consunzione, partendo dalla serie dei “sacchi”, che prevedono l’utilizzo della tela grezza, logora e rammendata, come nella parte inferiore del dipinto di Caravaggio, dove il colore è talmente sgranato che la tela riemerge e l’effetto del “sacco” è ancora più evidente. Il tema della ferita emerge anche nelle “Combustioni”, dove il materiale plastico o ligneo viene bruciato e la corrosione della materia diventa l’elemento espressivo dell’opera; o ancora nei “Cretti”, il cui aspetto richiama la terra essiccata e infine nei “Ferri”, dove il metallo è piegato alle crude esigenze poetiche dell’artista. La materia lacerata e ferita, sembra assumere un aspetto umano, fuori di metafora. Il nesso dunque è concettuale, una connessione tra il senso di morte e di disfacimento della forma nell’opera di Burri e di forma che si dissolve nel “Seppellimento di Santa Lucia”. In mostra alcune importanti presenze, tra le quali in particolare il “Ferro” sanguinante della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, a fianco delle opere delle collezioni del Mart.

Al corpo originario della mostra, sintetizzato dalla crasi Burri-Caravaggio-Pasolini, si aggiungono due settori.

Una serie di “Lucie”, non casuali riflessioni pittoriche di matrice caravaggesca, di Nicola Samorì, che lavora alla forma e alla materia di dipinti di superfice lacerata, ferita, sfigurata: pensieri mistici, se vogliamo, di un pittore coltivato e compiaciuto, ma attraversato dal pensiero della morte, della corruzione dei corpi in una mistica trasfigurazione della materia. Pittura sorda e splendente come le coplas di Juan de la Cruz: «L’anima che vuole salire sul monte della perfezione deve rinunciare a tutte le cose». A fianco dell’esperienza mistica di Samorì, attraverso lo spunto delle nature morte caravaggesche del maestro di Hartford, la mostra si apre a un tripudio di nature morte, vitalistiche e lussureggianti, di Luciano Ventrone, capolavori di pittura concettuale contrabbandata per iperrealismo, ovvero suprema pittura della realtà.


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