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A sinistra: “La contessa Berthier de Leusse”, (1890) Collezione privata, courtesy Galleria Bottegantica Milano e (a destra) “La contessa Berthier de Leusse in piedi”, (c. 1889) Ferrara, Museo Giovanni Boldini (Foto tratte dal libretto “BOLDINI: DAL DISEGNO AL DIPINTO. Attorno alla Contessa de Leusse”)

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APRE, aprirebbe, aprirà a Ferrara, nel castello Estense, una piccola ma saporitissima mostra su un dipinto di Giovanni Boldini che, pur di collezione privata, giace nei depositi del Museo dell’Ottocento, pervicacemente chiuso per i restauri dopo il terremoto del 2012. La proprietaria viaggia, non saprebbe bene dove tenerlo protetto, non lo ha voluto prestare al Mart di Rovereto, per la grande mostra “ Giovanni Boldini. Il piacere”, finalmente inaugurata il 16 gennaio, e questo mi ha indotto, per non lasciarlo nel silenzio e lontano da occhi desideranti, a restituirlo alla luce facendogli girare intorno una mostra-dossier, con numerosi confronti con disegni lasciati dalla vedova Boldini, Emilia Cardona, alla città di Ferrara.

Il raffinatissimo omaggio risarcisce la città dal triste silenzio delle reiterate chiusure dei musei, e suggerisce e invita a visitare la grande mostra di Rovereto, con numerosi capolavori (invisibili) provenienti da Ferrara, dove si coltiva, con documenti essenziali, il mito dell’artista, morto novant’anni fa e sepolto alla certosa monumentale.

Quale ruolo e quale importanza assegnare al disegno, in un artista come Giovanni Boldini, conosciuto, forse in maniera limitativa, come uno dei più grandi coloristi del proprio tempo? Per saper colorare, bisogna saper disegnare. Modernista convinto, Boldini non ha mai rinnegato la propria formazione accademica, prima a Ferrara, dietro gli insegnamenti del padre, pittore ferrarese, cultore del Rinascimento in anni che assistono alla riscoperta degli affreschi di Palazzo Schifanoia, poi a Firenze, dove aveva conosciuto i Macchiaioli. In questa formazione, il disegno era, naturalmente, base imprescindibile del mestiere, e non solo come consueto strumento di studio e preparazione per le pitture. Il disegno era anche mezzo di apprendimento e di riflessione sulla lezione dei grandi maestri, in maniera, per un artista, più incisiva, nella congiunzione diretta fra mente e mano, di quanto non potesse fare alcun testo stampato.

Le capacità acquisite da Boldini nel disegno sono ampiamente dimostrate nella sua produzione giovanile, segnata da un gusto quasi purista nel riproporre, in versione adeguatamente borghesizzata, gli ideali classicisti del Rinascimento. Con la frequentazione del gruppo dei Macchiaioli, rispetto ai quali, comunque, Boldini fu solo un simpatizzante, la sua arte conosce una svolta netta, irreversibile. La modernità, sostenuta in primo luogo dai francesi (importantissimo, a Firenze, il soggiorno di Degas), ma a cui gli italiani stavano fornendo una versione originale (oltre i Macchiaioli, anche i napoletani), diventa un’istanza obbligata, l’accademia un riferimento da sorpassare, il colore il metro di una nuova sensibilità volta a cogliere nelle cose non l’ideale, ma il fremito della vita vissuta.

La pittura diventa, romanticamente, pittoricismo, ricerca dell’effetto lirico che recupera la lezione “degenerata” del Rococò, cancellato dal Neoclassicismo con la stessa drasticità con cui i rinascimentali avevano cancellato il “barbaro” Medioevo. Non conta più la capacità di rendere l’apparenza razionale del reale, ma il coinvolgimento emotivo che quella traccia di realtà, pittoricisticamente rielaborata, riesce a suscitare nell’animo di chi guarda. Sono tutti presupposti che tenderebbero a ridurre drasticamente il ricorso al disegno nelle abitudini di Boldini. Non è così. Col trasferimento a Parigi e Londra, poi con la definitiva sistemazione nella Ville Lumière (1871), dentro la scuderia di Goupil, Boldini libera tutta la sua voglia di internazionalità, cominciando un ventennale percorso di progressiva emancipazione espressiva del colore dal disegno, fino a fargli assumere quelle caratteristiche forme sfrangiate, vibratili, fortemente gestuali, che diventeranno sinonimo del suo stile, il più glamour in circolazione nella high society del tempo, specialmente per ciò che riguarda la rappresentazione del soggetto femminile, emblema perfetto di una Belle Époque proiettata, entusiasticamente, al progresso delle idee, delle tecnologie e dei costumi.

Eppure quei barbagli elettrici, quegli sfarfallii pastosi, cosìlegati alla materia pittorica, che si manifestano con evidenza anche nel ritratto della “Contessa de Leusse”, mantengono ancora il disegno come fondamento. In certi studi preparatori, Boldini segna i tracciati che poi le sue pennellate seguiranno fedelmente, fingendo abilità istantanee che invece sono il frutto di un lavoro ben meditato, dove niente è dato al caso.

Sono disegni che spesso convertono il pittoricismo sfrangiato in dinamismo lineare, sintesi grafiche, intrise di luce Edison, di velocità automobilistiche, di rese del movimento foto-cinematografiche, che anticipano in maniera sensazionale il Futurismo, quello di Boccioni in primo luogo. Disegni che sono perfettamente autosufficienti, dato che tutto ciò che sarebbe diventato pittura, come ammetteva lo stesso Boldini, veniva già previsto, e trattato autonomamente da come sarebbe venuto nella tela.

Come dire che il processo mentale e manuale del disegno, anche in un colorista modernista come Giovanni Boldini, controparte pulita e profumata di Toulouse-Lautrec, rimaneva, classicamente, la base di tutte le arti.


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