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Una parte del Grande Cretto di Burri a Gibellina

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La più imponente impresa dell’arte del Novecento non è un monumento del Fascismo, ma degli anni Ottanta. Allora fu realizzato il Grande Cretto di Burri a Gibellina, pensiero assoluto sulla morte, dopo la devastazione del terremoto del Belice nel 1968. Un impatto superiore al Vittoriano in piazza Venezia, ma non un monumento a un uomo, bensì a tutta l’umanità.

Un’apocalisse dell’arte, mai così attuale come in tempi di tragedia.

L’impressione è la stessa che si prova salendo alla sommità dei crateri di un vulcano dove il flusso della lava ha creato distese di polvere grigia a perdita d’occhio. Così, a Gibellina, entrati nel percorso delle vie della città rivestita di uno strato di cemento, ci sentiamo in una dimensione ultraterrena, in un inferno, presi da un grumo di memorie del tempo perduto.

“Andammo a Gibellina con l’architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento”.

Sono parole di Burri che consacrano la Gibellina che fu rispetto a quella che è diventata.

Dall’alto la città ora appare come una serie di fratture fangose sul terreno, il cui significato simbolico coincide con il congelamento della memoria storica del paese. Ogni fenditura è larga dai due ai tre metri, mentre i blocchi sono alti circa un metro e sessanta per una superficie di circa 80 000 metri quadrati. Ciò che ne fa una delle opere d’arte contemporanea più estese al mondo. Onore a Burri e all’illuminato che lo chiamo, il senatore (e sindaco) Ludovico Corrao.

Burri ha interpretato lo stato d’animo di chi in quel luogo ha vissuto e di chi, vedendolo, sente il vento del tempo come sulle rovine di una città antica. Quello che non vede gli parla di quello che è stato.

Il cretto di Gibellina è una preghiera, una continuazione del lamento dei sopravvissuti, un santuario del dolore, senza essere un cimitero. Il Paese si alza dalla terra e sale al cielo, lo tocca, continua a vivere, mentre i nostri passi risuonano nelle sue strade solitarie. Burri vi ha concentrato tutto il dolore del mondo. Ora, a trent’anni dall’intervento di Burri, l’opera, incompiuta, è stata completata, e appare imponente nella sua definitiva estensione. Essa parla del nostro destino, e della fine del potere e delle civiltà.

Gibellina nuova non è Gibellina. É un sogno. È Utopia. Come raramente è accaduto, una città è nata come espressione di una visione, in un tempo breve, e non per volontà di un potente ma per necessità, anzi per una tragedia. Pienza, Ferrara, Sabbioneta, Palmanova, Grammichele, Servigliano sono luoghi perfetti e misurati da una sola mente che ne ha dominato la forma e lo sviluppo. Un architetto, o uno studio di architetti è chiamato a progettare non un quartiere, ma una città. L’occasione è rara, vale una vita. Un terremoto abbatte un’intera città, no, decine di paesi, travolge una valle; gli edifici squassati crollano come carte da gioco, restano scheletri muti. Su uno di questi paesi, Gibellina, cala una lapide che ne riveste l’intera area: è il Grande Cretto di Burri. E Gibellina rinasce poco lontano, ma fuori da sé e di sé, senza memoria, e senza storia. Sepolte quelle, prende corpo una visione che ha l’eguale, per entusiasmo, ma senza riparare tragedie, solo in Brasilia. Gli architetti hanno davanti il deserto, e lo misurano con le linee del loro sogno. Dove non c’era nulla ci saranno case, chiese, teatri, e ordinati quartieri e piazze, disposti seguendo l’ordine della mente: Samonà, Quaroni, e soprattutto Thermes e Purini costruiscono non per gli uomini ma per i fantasmi del loro sogno. Pensano grande e non hanno altra regola che la Città ideale, che nessuno potrà abitare se non uomini che non hanno necessità materiali, incorporei e rarefatti.

Un non luogo per un non corpo.

I cittadini deportati sono anche nascosti per non disturbare gli spazi che dalla mente di De Chirico si erano già una volta materializzati nell’EUR, metafisico modello per il sistema delle piazze di Purini-Thermes a Gibellina. L’occasione è sommamente propizia: lo Stato ha decretato il trasferimento totale del sito di Gibellina, che sarà destinata a risorgere in territorio di Salemi. Una città nuova! Senza dover seguire altra regola che i propri astratti pensieri e furori. E cosa volere di più per un architetto? L’impegno sarà massimo perché l’utopia diventi realtà.

Così è nata l’ultima città ideale. Dove convivono uomini e fantasmi.


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