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L'attore Giacomo Giorgio, tra i protagonisti di "Mare fuori"

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C’ERA una volta il buono, attorno al quale ruotava una storia pregna di significato, morale e insegnamenti; c’era questo buono, che viveva infinite vicissitudini e molteplici disgrazie affinché il suo punto di vista cambiasse, perché la strada fatta in tutto il corso della storia potesse rappresentare anche un percorso interiore, una metamorfosi, magari con il supporto di un gruppo di amici o di altre personaggi positivi che lo accompagnassero fino alla fine. Prima del “e vissero per sempre felici e contenti”, però, questo buono doveva scontrarsi con il cattivo. Bene contro male, protagonista contro antagonista; per quante declinazioni e sfumature possa avere questa dicotomia, ha sempre sviluppato le stesse dinamiche: perché si raggiungesse un lieto fine nella storia, il protagonista doveva dimostrare di essere migliore dell’antagonista, migliore degli ostacoli che gli si ponevano davanti.

Perfino la Divina Commedia riscrive questo schema: Dante percorre il cammino della redenzione dalle fiere che lo minacciano, passando per i tormenti dell’Inferno e per le cornici del Purgatorio, fino a raggiungere i Cieli del Paradiso e ad incontrare l’ “Amor che move ‘l Sole e l’altre stelle”, la riconciliazione con Dio e la distanza dal peccato, di cui pure Beatrice lo rimprovera nel Purgatorio.

Abbiamo tifato per i “buoni” finché abbiamo potuto. Abbiamo tratto ispirazione dal nostro eroe dell’ultima ora, dell’ultimo libro letto e dell’ultimo film visto, sperando di poterne imitare le gesta o perlomeno congratulandoci silenziosamente con lui o con lei per i risultati ottenuti alla fine della storia, che pure ci avrà lasciato qualcosa; abbiamo tifato per il bene finché abbiamo potuto, poi la letteratura, la televisione e il cinema ci hanno messi a sedere e ci hanno quasi costretti a rivalutare il male. Conosciamo bene la narrativa della negatività: è cominciata molto lontano nel tempo, con i sotterfugi e le storie importate dall’America catastrofista di Dynasty e Dallas, per proseguire con le pellicole romanzate sui capomafia, i latitanti e “Gomorra” e finire in bellezza con “Mare Fuori”. Ma come siamo arrivati a mitizzare il male?

La risposta è che probabilmente abbiamo romanzato troppo. Non abbiamo ancora capito che le fiction e i film non possiedono la neutra potenza dei documentari, né il distacco descrittivo di un articolo di cronaca. Non abbiamo assimilato il concetto che informarsi non è uguale a idolatrare, che si può conoscere a menadito la storia di Bernardo Provenzano ma conservando comunque un approccio accademico, un distacco emotivo necessario a mantenere integra la nostra morale e la nostra coscienza critica. Girare una fiction o un film su un individuo dai tratti così marcatamente negativi, significa dover fare i conti con l’esigenza di strutturare un copione. E per strutturare un copione, spesso, tocca scendere a compromessi, anche quelli che ci fanno correre il rischio di ammirare il personaggio, considerando di dover riempire novanta e più minuti con caratterizzazioni intense di quell’individuo e del contesto che lo circonda. Significa doverlo necessariamente incorniciare in una dimensione positiva che possa portare lo spettatore ad arrivare fino ai titoli di coda, anche se questo significa dover scrivere storie che inevitabilmente finiscono per porlo sotto una luce paradossalmente empatica. Non è simpatia, non è affetto, ecco il punto; è empatia. E probabilmente è più grave di qualsiasi altra emozione provata nei confronti del “cattivo” di turno.

La narrazione tossica delle personalità negative ci ha indotti a pensare che perfino un capomafia possa custodire in sé dei validi motivi per essere stimato e ammirato. Capomafia, dicevamo, Gomorra e Mare Fuori: notate niente in questo climax discendente? L’età della negatività si è abbassata gradualmente. Adesso i protagonisti di crimini efferati, torture, urla e violenze sono i ragazzini, gli adolescenti, qualche volta i bambini. Il successo “inspiegabile”, come il web lo ha definito, di Mare Fuori è dovuto all’errore che in molti oggi fanno: pensare che il personaggio cattivo abbia più chances sul schermo, che sia narrativamente più attrattivo, che possieda più sfumature e sia meno piatto di quello buono. Una considerazione che pare figlia della scarsità dei libri che si leggono, di una cultura povera di classici e di buona letteratura e di questa abbuffata televisiva di sempliciotterie ridicole, dalla trama inesistente e inconsistente, arricchite da qualche colpo di pistola sparso per creare suspence e da qualche broncio minaccioso in primo piano che, a detta dei più, conferirebbe spessore al personaggio. A condire il tutto, dialoghi banali e copioni scontati, colpi di scena prevedibili dalla prima puntata ed episodi che lasciano vuoto su vuoto ogni volta che finiscono.

Spiace un po’, a chi è abituato a trattare con i buoni della Letteratura e del Cinema, constatare che sia così sottovalutato il potenziale di un personaggio positivo e che, al suo posto, vengano esaltati e valorizzati adolescenti che si prendono la briga di massacrare il cane di un loro coetaneo rivale e di farne ragù da dare in pasto al suddetto coetaneo. È scarso e svilente che il massimo che una serie tv riesca ad offrire oggi sia questo, è scarso e svilente che i ragazzini che popolano i social network siano oggi i “branchi” che assorbono tutto quel male e che si riuniscono diventando le baby gang di cui tanto ci lamentiamo. E se state pensando che sia un’esagerazione, è solo perché questa cultura della narrativa tossica ce l’abbiamo ormai sottopelle, non ci facciamo nemmeno più caso, è quasi normale. Antagonisti nella realtà, ma protagonisti nelle storie: forse è questa la nuova frontiera della narrazione. Fino a qualche tempo fa serviva sconfiggere il cattivo per raggiungere un risultato migliorativo. Ma se oggi il cattivo è il protagonista, quale valore ci porteremo a casa?


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