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«Gli dei hanno voluto la guerra di Troia perché gli aedi avessero di che cantare», disse Demodoco, il poeta cieco che addolciva le serate alla corte di Alcinoo, re dei Feaci. La guerra era durata dieci anni, alla fine Troia era stata distrutta. Gli Achei avevano preso la via del ritorno. Si sapeva che alcuni erano arrivati alle loro case, che altri erano morti lungo la strada. Solo di Odisseo non si avevano più notizie. Erano trascorsi altri dieci anni dalla fine della guerra quando Nausicaa, la figlia di Alcinoo, lo vide apparire nudo e coperto di sale sulla riva del mare.

Accolto dal re nel suo palazzo, la sera stessa il naufrago sentì Demodoco, accompagnato dalla cetra, cantare le imprese degli eroi sotto le mura di Troia e le avventure dei sopravvissuti durante i loro nostoi, i ritorni. Odisseo si commosse e, vergognoso di piangere davanti ai Feaci, nascose il volto tirandosi sul capo il mantello di porpora. Alla fine riprese lui stesso il racconto, dove Demodoco l’aveva interrotto perché oltre non conosceva, e narrò le disavventure incontrate nel suo lungo e difficile viaggio verso Itaca.

L’episodio, narrato nell’ottavo canto dell’Odissea, fu ripreso nel 1814 dal pittore Francesco Hayez in una tela grandissima, di tre metri e mezzo per quasi sei, che gli era stata commissionata da Gioachino Murat al tempo in cui fu sovrano di Napoli. Nel quadro, conservato nel Museo nazionale di Capodimonte, si vede in primo piano Demodoco che canta e suona la cetra; Odisseo che si copre il viso con il mantello; Alcinoo che, seduto accanto a lui, sente i suoi «singhiozzi profondi» e stende la mano per chiedere al cantore una pausa.

Secondo la tradizione, la fortuna che l’Odissea avrebbe avuto nella cultura occidentale rispetto all’Iliade sarebbe cominciata proprio dal racconto di Odisseo e dal suo tortuoso peregrinare per il Mediterraneo: un percorso che si annoda come un labirinto lungo le coste meridionali della penisola italica.

Per secoli gli studiosi si sono impegnati a identificare i siti citati da Omero, che potrebbero essere immaginari: la terra dei ciclopi e l’isola del Sole con la Sicilia; la reggia di Eolo, che donò a Odisseo l’otre in cui erano imprigionati i venti contrari alla navigazione, con l’isola di Stromboli, i gorghi marini abitati dai mostri di Scilla e Cariddi con lo stretto di Messina; la grotta della maga Circe, che trasformò i compagni di Odisseo in maiali, con il promontorio del Circeo; l’ingresso all’Averno, il regno dei morti dove Odisseo incontrò l’indovino Tiresia, nel lago Averno vicino a Pozzuoli; l’isola delle sirene nel golfo di Salerno.

La fortuna di Odisseo, che i Latini avrebbero poi chiamato col nome di Ulisse, in uso ancora oggi, si deve anche ad altri motivi. Che sono ben raccontati nella mostra «Ulisse, l’arte e il mito» (catalogo Silvana Editoriale), aperta fino al 31 ottobre nei Musei di San Domenico di Forlì, dove sono esposte ceramiche greche e dipinti e sculture, che dal tempo dei Romani ai nostri giorni illustrano le storie raccontate nell’Odissea.

Uno dei motivi della fortuna di Ulisse è che il re di Itaca, al contrario degli altri eroi che andarono a combattere sotto le mura di Troia, non aveva un volto solo, ma tanti, e spesso in contraddizione tra loro. Non possedeva soltanto le virtù guerriere di Achille e Aiace, di Agamennone e Menelao e di tutti gli altri campioni achei. Ulisse, raccontava Omero già nell’Iliade, era prima di tutto polytropos, cioè versatile. Contraddittorio nel fisico e nel carattere. Aveva un corpo minuto, e tuttavia imponente, largo di spalle. Incerto e goffo nell’andare, agile però nell’eloquio «quando faceva uscire dal petto la voce profonda, e le parole come fiocchi di neve». Era forte sul campo di battaglia, dove venne ferito e soccorse guerrieri più forti di lui. Ma era ancor più abile nelle sortite notturne in campo nemico e nelle azioni che richiedevano astuzia e capacità d’inganno, come quella usata per far entrare dentro le mura di Troia il grande cavallo di legno che ne decretò la caduta.

Era un aristocratico, ma pronto a trasformarsi in un convincente uomo politico, quando si trattava di dirimere questioni all’apparenza irrisolvibili. Omero sembra attribuire questa doppiezza a una doppia eredità trasmessagli dagli antenati: l’invincibilità in guerra del padre Laerte, la fama di spergiuro e di ladro abilissimo del nonno materno Autolykos.

Furono soprattutto le sue imprese come signore degli inganni ad affascinare gli antichi. L’impresa più eclatante dell’Ulisse ingannatore, che scatenò la fantasia dei ceramisti arcaici tra il settimo e il quarto secolo prima di Cristo, fu l’accecamento di Polifemo, e la successiva fuga dalla grotta del ciclope con i compagni legati sotto il vello dei suoi arieti. In seguito l’attenzione degli artisti si spostò verso i racconti che costellarono le opere e i giorni di Ulisse: le sue relazioni con le donne che cercarono di trattenerlo e di fargli dimenticare il viaggio: le sirene, la maga Circe, la dea Calipso; e i rapporti con le donne che lo aiutarono, come la candida Nausicaa; e la nostalgia per la moglie Penelope.

L’evolversi delle rappresentazioni di questi episodi nell’arte vanno di pari passo con le mutazioni del giudizio verso l’eroe e le sue azioni. Talvolta fosche ombre ne oscurano la fulgida figura: accadde già nel corso del V secolo avanti Cristo, quando si identificò l’Ulisse politico con il peggio della demagogia che aveva avvelenato la storia ateniese dell’età di Pericle, e la sua capacità retorica celebrata da Omero divenne marchio d’infamia. Nella schiera dei demagoghi lo collocò Euripide, per bocca di Ecuba: «demagoghi, razza d’ingrati, in caccia solo del favore popolare». E tra i demagoghi, la regina sconfitta di Troia giudica Ulisse il peggiore: «un immondo imbroglione, un nemico della giustizia, un mostro senza legge che stravolge ogni cosa con la sua lingua biforcuta». Sofocle fa diventare l’eroe di Itaca addirittura un vigliacco, un freddo manipolatore che si approfitta dell’ingenuità del prossimo, ma è pronto a scappare di fronte all’ira dei raggirati. Per Virgilio, che lo affronta dal punto di vista del troiano Enea, è il più spregevole e pericoloso degli Achei.

Questa ambiguità accompagnerà Ulisse attraverso i secoli successivi fino al Medioevo, quando gli scrittori paleocristiani vedono nella sua nave il simbolo della Chiesa, strumento della Salvezza, alla quale il capitano si fa legare per sottrarsi alla tentazione delle sirene, sintesi di ogni lussuria e adulazione: ed ecco spiegata la presenza della figura di Ulisse sui sarcofagi cristiani.

A traghettare definitivamente l’eroe di Itaca nell’età moderna sarà Dante Alighieri, che lo incontra all’inferno dentro la fiamma crepitante e squassata dal vento, e inventa per lui una fine inedita: il naufragio oltre le Colonne d’Ercole, oltrepassate per conoscere il «mondo sanza gente». Nell’oceano sconosciuto e immenso la sua nave si inabissa:

«Tre volte il fè girar con tutte l’acque / a la quarta levar la poppa in suso / e la prora ire in giù com’altrui piacque / infin che ’l mar fu sovra noi richiuso»

Il mare che sigilla per sempre l’ultima avventura di Ulisse punisce il suo peccato di hybris, la superba volontà di conoscere. Eppure le parole che Dante fa dire a Ulisse per convincere i compagni a prendere ancora una volta la strada verso l’ignoto preannunciano i viaggi e le scoperte del successivo millennio, e porteranno gli esploratori verso nuovi mondi: Marco Polo in Cina, Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci verso le Americhe, il Capitano Cook verso l’Australia, Magellano a circumnavigare il globo terrestre per decretare la fine del terrapiattismo, gli astronauti a volare nel cosmo. Perché, avverte Ulisse, «fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza».

La mappa che illustra le tappe del viaggio di Ulisse nel mar Mediterraneo


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