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Camillo Benso conte di Cavour

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Napoli e Venezia sono capitali, e così anche Genova che si affaccia su tutte le rotte.

Tre città d’Italia bagnate dal Mediterraneo che sono sorelle a Istanbul – la Seconda Roma – affine a sua volta alla Terza, Mosca, il cui mare è la neve. La Quarta, fornace di eccentrici esperimenti urbanistici, è Brasilia, nelle remote Americhe.

Manca all’appello la prima del triduo, giustappunto l’Urbe generata dal seme di Enea ma Roma cui le strade di tutto il mondo arrivano, non riesce a essere vera capitale.

Al compimento dei 150 anni dal 3 febbraio 1871 quando – sulle note della fanfara dei bersaglieri – è annessa al Regno di Casa Savoia, Roma che è bellezza fatta civitas patisce un fraintendimento incrostato, ahinoi, assai assai di equivoci.

La vera Roma – la Prima – non è quella del pittoresco andirivieni papalino. Tantomeno è quella del parastato a tutti noto, piuttosto è la Prima Decade di Tito Livio commentata da Niccolò Machiavelli. È il film “Il Primo Re” di Matteo Rovere con Alessio Lapice, e davvero l’unica Roma è quella aurorale del sacro solco segnato dai due Gemelli.

Quella stessa che i cinesi – oggi – indifferenti a tutto, credono sia ancora tale se negli scavi archeologici, rinvenendo la Lupa all’ombra della Grande Muraglia festeggiano il gemellaggio tra i due poli dell’Eterno: il Celesto e il sole che sorge libero e giocondo sui sette colli.

È Roma Orma Amor, il segnacolo del segreto tra i segreti.

Invece no, nel Centenario – e dunque cinquanta anni fa – Pier Paolo Pasolini che s’è trasfigurato nella città fino a morirne, conia per la “Capitale” una cocente definizione: “Coloniale”.

La Grande Proletaria che s’erge s’invera nella Grande Meretrice. Nel 1972 Federico Fellini scrive con Bernardino Zapponi il film sulla città: “ROMA”. La colonna sonora è di Nino Rota e Fellini è nel ruolo di se stesso.

“In un pomeriggio di ottobre del 1938”, annota il regista, “arrivai alla stazione, salii su una carrozzella e andai in Via Albalonga, rione San Giovanni. La prima cosa che mi capitò, scendendo dalla carrozzella davanti al numero 13 in cerca dell’affittacamere, fu di prendere uno sputo in testa da tre ragazzini che non si sono neppure ritirati dalla finestra. Fu la scoperta del romano, l’antico suddito papalino che vive in una città improbabile cresciutagli attorno a tradimento, uno che non si fida di dire la verità perché ‘non si sa mai’, pauroso per timori atavici, un uomo dalle prospettive molto ravvicinate, attorniato da storia e monumenti ma rapportato soltanto alle consuetudini quotidiane e alla tribù familiare: mamma, sorelle, nonni, nipoti, zia”.

La Capitale è la meta ambita di ogni provinciale, ogni campagnolo – e D’Artagnan lo sa bene – paga pegno quando mette piede in città. Ne ricava solo sfottò e duelli. E ogni capitale – e così è in tutto il mondo – è lo stigma di charme e finezza. Qualunque rusticone del più sperduto villaggio dell’immensa Russia fa proprio il grido delle Tre Sorelle di Cechov: “A Mosca, a Mosca!”, ogni tedesco – perfino il più bavarese – ha certamente il mito di Berlino ma non esiste tedesco, anche a bordo di un panzer, anche calzando gli stivali della Wehrmacht, che riesca a cedere al fascino inesorabile di Parigi. Ne è irrimediabilmente sedotto. La storia dell’occupazione militare germanica in Francia si compendia nell’amore totale del comandante tedesco con Coco Chanel che va ad attenderlo fuori dal carcere dopo la condanna al Processo di Norimberga. Lo stile è quella cosa lì che si chiama charme, tutte le donne del mondo vogliono vedersi come La Parigina. È anche il titolo di un libro di grande successo, un classico ormai, un manuale di stile scritto dalla donna più bella di sempre – Inès de la Fressange – da qualche anno esiste una versione italiana di quel canone, è La Milanese, e con tutta la buona volontà è impossibile immaginare una variante credibile di quel titolo tipo La Romana. E va bene che dentro ogni gattamorta c’è sempre una zoccola viva ma non c’è italiano/a, da Lampedusa al valico del Brennero, che abbia a ideale uno stile “romano”, che ne subisca il fascino o che voglia modellarsi ai precetti di costume in uso alla Roma di oggi.

Lo skyline è debitore dell’edilizia palazzinara dal desolato design neorealista. Ogni automobile in transito, ogni radiolina e qualunque oggetto colto dalle inquadrature diventa segno di vecchie paure, di servilismi inaciditi in sbotti d’ira, di avvilenti sociopatie svaporate nel tedium fati e la stessa maschera di città, Alberto Sordi, corrisponde al marchio urticante a suo tempo impresso da uno spietato patriota qual è Giovannino Guareschi: “È la diffamazione vivente dell’italiano in guerra e in pace”.

Capitale è ciò che la legge dice di essere tale. Il Conte di Cavour, nel suo discorso del 27 marzo 1861, già gravato dalla fatica di fare – con l’Italia – anche gli italiani, indica in Roma “la capitale necessaria d’Italia”. Vedeva lungo Cavour e quella che solitamente distrae i più pigri tra gli storici, ovvero la “questione meridionale”, urge di precisazione. Trattasi semplicemente di “questione centrale” nel senso geografico proprio di area centrale, ovvero tutto un mancato questionare su quella zona del Centro Italia di fatto inospitale – fosse pure in virtù di mito, cultura e arte – verso l’operosa virtù d’apparato e di qualunque altro pragmatismo creativo borghese. I terroni, ossia i meridionali, si trovano meglio accolti al Nord che nella capitale e Cavour vede lungo proprio perché la storia è ormai datata.

Nel libro edito dalla fondazione italiadecide, “Roma capitale” – un prezioso volume che raccoglie discorsi e documenti parlamentari, con una bella prefazione di Alessandro Palanza – è interessante leggere le dichiarazioni di Francesco Crispi in merito al processo di “inserzione della città nell’ordinamento italiano”.

La discussione sui provvedimenti per Roma capitale del 1881 si fa accesa quando l’analisi sul dato urbanistico e infrastrutturale rivela inadeguatezze al ruolo proprio di una capitale. Ecco le parole di Crispi: “Proclamatasi Roma capitale del Regno il 27 marzo 1861, l’avemmo di fatto nel 20 settembre 1870. Venuti a Roma vi abbiamo trovato la sede del cattolicesimo; e questo, se può avere i suoi vantaggi, ha pure i suoi danni. Qui il Governo non trovò tutte quelle condizioni di vita e di esistenza materiale che sono necessarie al regolare andamento delle sue funzioni. Noi in Roma stiamo a disagio. È una locanda per noi piuttosto che una città (Benissimo! grida di approvazione dei parlamentari); e guardando quest’Aula dovete tutti sentire un grave rammarico nel riflettere che, dopo dieci anni, siamo ancora in una casa di legno coperta di tela e carta (Si ride), quasi che stessimo qui provvisoriamente e non nella capitale definitiva dello Stato”.

Da 150 anni a oggi, il banchetto (senza rotelle) affastellato di microfoni su cui Giuseppe Conte fa la sua conferenza stampa di congedo da Palazzo Chigi conferma quella suggestione colta da Crispi: provvisoriamente, e non nella definitiva sede dello Stato. Un altro fraintendimento incrostato, assai assai – ahinoi – di troppi equivoci.


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