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Dino Buzzati

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Quest’anno cadono i cinquant’anni dalla morte di Dino Buzzati. Cinquanta sono anche gli anni di Antonio Dorigo, il protagonista di Un amore, l’opera più nota e più controversa, più autentica e più simbolica di Buzzati. Un magma di contraddizioni sfuggenti come ne è la materia di cui tratta. Un amore è un amore qualsiasi ne sia l’oggetto anche se non ne sembra degno.

Un amore è un amore pur se inappagato, anzi soprattutto in quest’ultimo caso perché, a proprio avviso, ne rappresenta la manifestazione più pura e disinteressata, più mistica perché consacrata al dolore e alla mortificazione dell’animo più che alla gioia del corpo, più duratura perché destinata ad autoalimentarsi per sempre. Un amore può essere amore per un corpo di carne e pelle morbida, tenere cartilagini, denti lisci, lucidi occhi vetrosi.

E allo stesso modo può essere amore per un organismo fatto di cemento e mattoni, di piazzuole e vicoli, di strade asfaltate e bollenti, muri crepati, slarghi monumentali, tetti affastellati scottati dal sole. La cifra dell’amore, in tutti i casi, è il mistero del desiderio che l’oggetto d’amore scatena nel corpo e nell’anima. Il mistero è fatto di fame, la alimenta e ne è alimentato. La fame d’amore non può mai esserne sazia. In Un amore di Buzzati essere umano e città, Laide e Milano, si confondono nella brama d’amore del protagonista Dorigo e nel respingere costantemente questo suo amore.

Il motivo del rifiuto non sta, come lo si è voluto interpretare, nella natura necessariamente crudele dell’oggetto d’amore, sia essa la natura della donna, dei giovani o della grande città. Ma il motivo sta, ed è sempre stato, nella brama di controllo e di possesso di questo amore che, nel momento in cui si nutre del mistero, cerca costantemente di distruggerlo. Non cerca davvero l’equivalente nell’oggetto d’amore, ma mette in atto tutte le strategie di fallimento, consce, inconsce e dolorose, volte a perpetuare se stesso. E quando l’amore si fa idolatria, si disinteressa della realtà del proprio oggetto, diventa passione, culto narcisistico di se stesso.

Più la si coltiva e più essa cresce di intensità, più cresce di intensità meno salda si fa la sua presa sulla realtà, fino a che non la perde del tutto, coprendola agli occhi, diventando essa stessa unica realtà. Sia ne Il deserto dei Tartari che in Un amore, i suoi due romanzi più importanti, Dino Buzzati scrive di passione, per la morte l’una, per la vita nella sua misura più cruda l’altra. Oggetti per nulla dissimili l’uno dall’altro, anzi incredibilmente vicini nell’essere al di là di uno squarcio.

Buzzati comprende che, oltre la morte, c’è una sola altra cosa, nella vita umana, sfuggente e autodissolutoria come il mistero d’amore, ed è la giovinezza. La giovinezza non può essere posseduta dall’esterno. Non può essere posseduta con la forza, con un’imposizione di violenza, con il convincimento. La si può avere solo finché non la si è perduta, dopo è irrecuperabile in alcuna forma. Laide oltre a essere mistero d’amore, oltre a essere città, oltre a essere donna è, sopra ogni cosa, giovinezza. Un ennesimo oggetto refrattario al controllo di Dorigo. Laide è, con le parole di Dorigo, “sfrontata, maliziosa, civetta, popolaresca, sicura di sé”.

È una ragazza giovanissima, che prostituisce il suo corpo in cambio di vantaggi materiali di cui non è mai sazia, “Per farsi prendere in considerazione da lei, una bella Maserati ultimo modello contava molto di più che aver costruito il Partenone”. In questa frase del cinquantenne Dorigo c’è tutta l’infinita incolmabile distanza destinata ad alimentare tragicamente la sua fame. Vista dall’esterno la giovinezza appare materialistica, approfittatrice, volgare, ignorante, insensibile, indifferente, incomprensibile, peggiore di quando ci apparteneva.

È il travisamento sentimentale che della giovinezza fa chi ne è rimasto escluso o chi ne vuole ancora, per conti in sospeso con la propria. Chi si sente tradito dalla giovinezza, rifiutato, incompreso, e allora cerca di renderla peggiore di come è e di come era stata, di spingerla alla spietatezza. Ma in realtà, la giovinezza, come Laide, respinge quando sente puzza dell’inautenticità e della brama con cui la si avvicina. L’amore di Dorigo già nasce stortamente dal risentimento per l’impossibilità di conciliazione della propria essenza con quella di Laide. Nasce già bagnato di rimpianto.

Più ancora che il mistero d’amore è il mistero della vita trascorsa e perduta che Dorigo cerca di possedere, votandosi all’insuccesso. Non potrà possedere la giovinezza perché non la comprende più e non è compreso. Non la comprende perché si avvicina ad essa con sentimenti inautentici e predatori, non vuole veramente conoscerla, vuole solo fagocitarla. Laide questo lo comprende, tutti i giovani lo fiutano, e reagisce con il rigetto, un rigetto sadico e crudele, almeno quanto lo è l’atteggiamento inconscio dell’uomo che la vuole e la disprezza, l’ama e la ingiuria. La gioventù è sempre deludente quando la si vede dall’esterno, è sempre indolente, inerte, ignava, priva di valori, priva di aspirazioni, di bellezza, votata alla promiscuità sessuale, alla confusione, alla dispersione. In ognuno di questi giudizi c’è la fitta dolorosa di chi per sempre è lasciato indietro da questo turbinio vitale che necessariamente parla un linguaggio che può parlare esso soltanto. Si può comprendere la tanto esecrata crudeltà di Laide solo se si comprende la speculare crudeltà di Dorigo nei suoi confronti.

Non esiste “Ninfetta” senza un uomo, afflitto dall’assenza di giovinezza e votato all’insuccesso del suo proposito, che la definisca tale. Se si fermasse ad ascoltare la giovinezza di Laide, Dorigo sentirebbe che è spaventata, incerta, affamata, impavida, portatrice di una visione nuova, di bisogni nuovi, delle stesse paure, di nuove paure, di considerazioni diverse, di necessità struggente di una spiegazione delle cose, di felicità innate e di infelicità abissali. “Lui la amava per se stessa” dice Dorigo a un certo punto, ma poi in realtà Laide diventa tutt’altro che se stessa, diventa simbolo di qualunque cosa meno che lei, di cento altre cose possedute e perdute, oppure mai avute, di cento altri misteri: “Lui la amava per se stessa, per quello che rappresentava di femmina, di capriccio, di giovinezza, di genuino popolana, di malizia, di inverecondia, di sfrontatezza, di libertà, di mistero. Era il simbolo di un mondo plebeo, notturno, gaio, vizioso, scelleratamente intrepido e sicuro di sé che fermentava di insaziabile vita intorno alla noia e alla rispettabilità dei borghesi. Era ignoto, l’avventura, il fiore dell’antica città spuntato nel cortile di una vecchia casa malfamata fra i ricordi, le leggende, le miserie, i peccati, le ombre e i segreti di Milano.”

Un amore non è amore quando non vede altro fuori di sé.


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