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Senza nulla togliere all’urgenza delle lotte portate avanti per l’affermazione dei diritti di qualsiasi minoranza, credo che oggi la categoria meno inclusa e – per ragioni endogene alla categoria stessa – considerata sia quella degli introversi.

Introverso, dal latino intro (dentro) + vertere (volgere): di persona che ha una forte tendenza a chiudersi in se stessa.

Stando a quanto dice il vocabolario, gli introversi avrebbero decisamente scelto il tempo meno adatto in cui vivere. Infatti, per chi non se ne fosse reso conto, la nostra società è maniacalmente protesa verso l’apertura.

In La società della Stanchezza (Nottetempo, 2012), Byung Chul Han descrive in modo chiaro la dinamica che ha condotto a questa forma di esotismo anomalo e incontrollato: da una forma di società negativa (che riconosceva l’altro come un non-io, definendo con chiarezza i confini di ciascuna esistenza) si è passati a una forma di società positiva (che riconosce nell’altro un nuovo possibile io).

Questo passaggio, influenzato da dinamiche politiche ed economiche, è stato accelerato da cambiamenti apparentemente meno significativi, quali l’invenzione di quelle piattaforme digitali che ci consentono (o forse ci impongono) di sbirciare continuamente gli scampoli post-prodotti delle vite perfette degli altri, alimentando invidia e rancore e spingendoci a competere in una gara che riduce le nostre esistenze ad album in cui collezionare e condividere esperienze.
Insomma, nella nuova società positiva, fatta su misura per gli estroversi (dal latino extra- vertere: volgere fuori), non esistono porte chiuse.

Questa apertura incondizionata verso tutti e tutto, che può sembrare un passo avanti sulla strada del progresso etico, a livello psicologico porta con sé non poche controindicazioni. Cancellando ogni ostacolo, la società positiva ci suggerisce di poter fare (essere) qualunque cosa. Prati di possibilità sembrano fiorire intorno ai giovani, man mano che attraversano il campo che li conduce verso la vita adulta, avverando un sogno di libertà che ben presto, però, si rivela essere un incubo.

Sebbene non ci siano rovi a impedire i loro movimenti, i giovani si bloccano: non sanno più se desiderano davvero cogliere tutte le opportunità che la società positiva offre o, piuttosto, se si sentono in dovere di farlo. Presi dal panico, vivono bulimicamente, nel tentativo disperato di sfruttare appieno l’illimitatezza delle opzioni di cui dispongono: acquistano biglietti aerei, postano foto, inviano curriculum. Vivono esperienze senza il tempo di goderne, fino a consumarsi.

Per salvarci da questo destino, potremmo provare a dare udienza agli introversi. Amplificare le loro voci, che per natura sono flebili e inadatte alla protesta, e ascoltare. Potremmo così riscoprire un’antica nenia, conservata nelle nostre orecchie come il mare nelle conchiglie. E, cullati da quel rumore bianco, imparare di nuovo a chiuderci in noi stessi, sorprendendoci di non essere mai stati tanto vicini alla vita.


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