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Hossein Derakhshan (crediti: Arash Ashouria (RIP))

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11 minuti per la lettura

Hossein Derakhshan, noto anche come Hoder, è un blogger, giornalista e ricercatore iraniano-canadese. Derakhshan ha iniziato come giornalista scrivendo di Internet e cultura digitale per il giornale riformista Asr-e Azadegan nel 1999. In seguito, quando questo giornale è stato chiuso dal sistema giudiziario, è passato a un altro quotidiano, Hayat-e No. La sua rubrica si chiamava Panjere-i roo be hayaat (Una finestra sulla vita, un riferimento a La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock), e in seguito si è ampliata fino a diventare una pagina settimanale sulla cultura digitale, Internet e i giochi per computer. Nel dicembre 2000, Derakhshan si è trasferito a Toronto, Ontario, Canada. Il 25 settembre 2001 ha avviato il suo weblog in lingua persiana. Si intitola Sardabir: khodam, ovvero “Editore: Me stesso”.
Condannato a venti anni di carcere per ragioni legate alla sua attività, è stato imprigionato a Teheran dal novembre 2008 al novembre 2014, prima di essere liberato in seguito al perdono. È accreditato di aver avviato la rivoluzione dei blog in Iran e per questo è chiamato “il padre dei blog persiani” da molti giornalisti. Una prima versione di questo testo è stata pubblicata in inglese il 21 Luglio 2023 su Wired.com: questa è la sua prima versione in italiano, voluta dall’Autore.


Cleto Corposanto

A cinque mesi dall’inizio dei miei otto mesi di isolamento e poco prima del Capodanno persiano, il Nowruz, le guardie mi avevano trasferito in una nuova cella all’estremità opposta del carcere di massima sicurezza di Evin, a Teheran. Misurava 3 metri per 3, era molto più grande della precedente, il che significava che potevo camminare in un otto immaginario lungo gli angoli. In assenza di qualsiasi altra cosa da fare, camminare senza sosta era diventata la mia unica routine, e ben presto divenne una dipendenza.

Camminavo e camminavo. Ricordavo e immaginavo, prevedevo e pianificavo tutti gli scenari possibili e spesso conversavo con me stesso ad alta voce, in tutte le lingue che conoscevo. Durante queste passeggiate nel mio otto immaginario, mi trovavo di fronte alle finestre o alle pareti semicoperte di marmo. La luce del sole penetrava nella stanza, tracciando percorsi d’oro sul pavimento che salivano sulle pareti. Quella luce danzava, riscaldava e poi spariva, promettendo di tornare l’indomani. Il marmo era diventato una tela che rivelava immagini come la schiena curva e nuda di una donna seduta, circondata da volti e nuvole.

Privato della vista, cercavo rifugio nei suoni. La nuova cella era meno luminosa a causa degli alti e splendidi platani e gelsi che si trovavano all’esterno, ma era proprio accanto all’ingresso principale e quindi, per gli standard di Evin, più movimentata e divertente dal punto di vista uditivo. Potevo sentire dal fondo del corridoio le guardie annoiate che durante il turno spettegolavano dei loro supervisori, sentirle rispondere alle richieste degli altri detenuti e quando guardavano il calcio o il film alla televisione nazionale (Non ho mai sentito le notizie, perché era gli era rigorosamente vietato guardare i telegiornali). Una volta, pochi secondi di una versione strumentale di “A Punch Up at a Wedding” dei Radiohead in uno stupido spot televisivo mi fece piangere a dirotto. Non ero sicuro di cosa desiderassi di più: se abbracci o libri. Sospetto che sia molto raro essere privati di entrambi allo stesso tempo.

Il mio unico conforto risiedeva nella convinzione che noi, i reclusi, fossimo tutti uguali in quella miseria avvilente o nella percezione di essa. Le guardie e gli agenti penitenziari avevano sempre detto che nel nostro reparto non venivano dati libri o giornali e io ci avevo creduto perché non ne avevo visti (né ne avevo sentito parlare).

Un pomeriggio, però, qualcosa mandò in frantumi questo piccolo conforto. Quattro paia di ciabatte erano spuntate fuori da una cella, a due passi dalla mia, suggerendo la presenza di quattro detenuti che molto probabilmente erano appena usciti dal regime di isolamento per essere rinchiusi insieme in una cella più ampia. Alcune ore dopo, attraverso le fessure di aerazione che connettevano le celle, udii il fruscio di un giornale. Mi si spezzò il cuore, davvero. Quel condotto comune e ciò che potevo sentire attraverso di esso mi turbò profondamente per i tre mesi successivi. Tra tutte le ingiustizie di un reparto di massima sicurezza, dai momenti di libertà bendata nello spiazzo, alla terribile uniforme di poliestere grigio e all’abbigliamento intimo blu in un nylon scadente, questa era stata senza dubbio la più crudele.

Eppure, cosa sarebbe accaduto se non fossero esistiti condotti di ventilazione condivisi tra le celle, attraverso i quali poter udire gli altri prigionieri? E se il reparto fosse stato così vasto da non far percepire mai la presenza degli altri? E se ci avessero reso anche sordi così come eravamo stati resi ciechi? E se avessero potuto rinchiudere i nostri sensi così come avevano intrappolano i nostri corpi? Emergono da queste, domande più ampie: se non sappiamo nulla degli stipendi dei nostri colleghi o dove e con quali standard vivono, possiamo sapere se siamo trattati equamente? È possibile percepire l’ingiustizia se non c’è uno spazio condiviso in cui possiamo vedere e conoscere la vita degli altri?

La straordinaria combinazione di isolamento fisico e cognitivo che ho sperimentato in carcere rappresenta una versione esasperata della frammentazione sociale che sta rapidamente diventando realtà per molte persone nelle aree urbane più sviluppate del mondo. La pandemia ha in qualche modo accelerato questa realtà. Molti di noi hanno smesso di andare in ufficio, di partecipare a eventi, di frequentare negozi, caffè e ristoranti. Abbiamo guidato l’auto o la bicicletta evitando i trasporti pubblici. Le mascherine e i dispositivi di protezione ci hanno difeso dagli altri. Quasi tutti gli spazi pubblici o condivisi in cui potevamo interagire o anche solo guardare gli estranei erano scomparsi, trasformando le nostre vite in vere e proprie costrizioni fisiche, non più in metaforiche e temute restrizioni cognitive.

Chiamo questa combinazione di isolamento materiale e cognitivo nella vita quotidiana “personalizzazione di massa della verità”. Si tratta di un argomento molto più ampio della famigerata “bolla dei filtri”, che si concentrava solo sul filtraggio cognitivo o delle informazioni. Le piattaforme stanno rapidamente diventando istituzioni sociali con un impatto profondo ed esteso sia a livello cognitivo che fisico sulle nostre vite. Le tecnologie del prossimo futuro, come le auto a guida autonoma, i visori per la realtà mista e le consegne con i droni, trasformeranno l’isolamento che abbiamo sperimentato durante la pandemia in una realtà quotidiana e permanente. Le possibilità di incontrare o interagire con estranei si ridurranno drasticamente, perché gli spazi condivisi per queste interazioni diminuiranno o il nostro accesso ad essi sarà limitato. Queste dinamiche influenzeranno la nostra vita mentale e materiale in modo simile al controllo che i nostri corpi e le nostre menti subiscono in prigione.

Un tempo il “mercato dell’uno” era il sogno di marketer e produttori di tutto il mondo. Se si è certi delle esigenze uniche e vitali di una persona, il prodotto è già venduto prima ancora di essere realizzato. Questa forma estrema di personalizzazione rappresenta l’unione tra consumo e produzione.

Prima dell’era dell’IA e del machine learning, era difficile immaginare una personalizzazione su vasta scala. Ma con grandi piattaforme digitali come Google o Facebook, la personalizzazione di massa è finalmente emersa: un processo automatizzato e continuo di iper-fragmentazione dei consumatori e predizione delle loro necessità o desideri basato sulla massiccia sorveglianza dei dati e complesse tecnologie di classificazione. Dai feed di Facebook, Instagram e Twitter e le loro pubblicità incorporate, alle raccomandazioni di Amazon e Netflix e alla playlist Weekly Discover di Spotify, le aziende utilizzano statistiche e probabilità per imparare rapidamente di che tipo di cose potremmo avere bisogno o desiderare e spingerci di conseguenza verso di esse.

Ora la domanda è: cosa succederebbe se il mercato del singolo venisse esteso ad altre sfere della vita portandoci in una società del singolo? Quando la personalizzazione di massa si estende oltre i feed o gli annunci, diventa qualcosa di completamente diverso: la personalizzazione di massa della verità. La “verità” in questo caso si riferisce alle esperienze vissute, incarnate e a lungo termine e alla conoscenza pratica e istintiva che ogni individuo possiede del mondo esterno.

Pensate a come le piattaforme potrebbero controllare i nostri corpi e le nostre esperienze materiali, anziché solo quelle cognitive. Potrebbero guidarci in auto a guida autonoma, selezionando i percorsi in cui faremo acquisti di cui non abbiamo bisogno; potrebbero scegliere a quali eventi portarci e con quali persone entrare in contatto, magari segnalando con indicazioni visive sopra le loro teste chi avvicinare o evitare; ordineranno oggetti che stabiliscono non restituiremo, applicando prezzi personalizzati per noi; decideranno con chi frequentarci, con chi formare relazioni affettive e riprodurci. Forse non riusciranno a confinare le nostre menti, ma sarebbero pienamente in grado di governare i nostri corpi – e le nostre menti finiranno per seguire la strada dei nostri corpi.

Una società dell’uno significa che vivremo secondo diverse verità personalizzate sia nel mondo immateriale che in quello fisico, con poche possibilità di conoscere le verità degli altri. Questo può funzionare in due modi. Come ho scoperto durante il periodo di isolamento, attraverso il piccolo spazio condiviso di un condotto di aerazione, alcuni detenuti avevano accesso ai giornali, così la giustizia non può realizzarsi senza una forma di collettività (o spazio condiviso). Una ricerca ha anche dimostrato che quando i ragazzi poveri fanno amicizia con quelli più ricchi, hanno una probabilità significativamente maggiore di finire la scuola superiore e in seguito guadagneranno in media il 20% in più da adulti. Non è un segreto che la segregazione acuisca la disuguaglianza.

Non solo la giustizia e l’uguaglianza, ma anche la democrazia soffrirà della personalizzazione di massa, perché potrebbe minare l’autonomia, prerequisito per qualsiasi concetto di cittadinanza. Immaginate un politico condurre una campagna elettorale contemporaneamente razzista e antirazzista, e persino vincere, in un mondo in cui le persone non sono esposte alla vita o alle “verità” incarnate dagli altri in spazi pubblici condivisi. Anche dopo la loro vittoria, il politico potrebbe continuare a manipolare gli elettori selezionando e presentando in modo diverso i piani e i risultati ottenuti, traendo vantaggio dal fatto che le persone interagiscono sempre meno con chi non conoscono.

Questa era una tattica comune utilizzata durante gli interrogatori in carcere, le guardie carcerarie raccontavano ai detenuti storie diverse sul loro retroterra etnico e sulle loro politiche e solo se i detenuti fossero stati trasferiti in zone comuni o avessero trovato un modo per parlare degli interrogatori con gli altri, avrebbero potuto capire di essere stati manipolati.

Anche la fiducia è minacciata dalla personalizzazione di massa, poiché si forma solo nella collettività. Chi vorrebbe volare su un aereo vuoto di una compagnia aerea sconosciuta? Un aspetto molto inquietante del mio tempo in isolamento era che non potevo fidarmi di nessuna informazione che mi veniva comunicata riguardo al mondo esterno. Credevo costantemente che ogni informazione condivisa con me fosse destinata a manipolarmi affinché confessassi cose che pensavano stessi nascondendo.

Ad esempio, poiché ero stato arrestato pochi mesi prima delle tesissime elezioni del 2009, non credevo a nulla di ciò che veniva detto riguardo ai candidati che avevano iniziato la loro campagna elettorale. La diffidenza si estendeva anche a fatti banali come sulla nomina ad allenatore della nazionale di calcio iraniana. Solo mesi dopo, quando ho incontrato altri detenuti in uno spazio condiviso, ho capito che non avevano mentito.

La società dell’uno può sembrare ancora un sogno (o un incubo, a seconda di chi si è) impossibile nel 2023, ma lo era anche il mercato dell’uno prima che la miscela di big data e machine learning portasse alla nascita di gigantesche piattaforme digitali.

Siamo ancora in tempo per prevenire le conseguenze negative della personalizzazione di massa. Un’idea politica concreta che promuovo dal 2018 è quella che chiamo “neutralità della piattaforma”: regolamentare le piattaforme affinché scorporino i loro modelli o algoritmi di intelligenza artificiale dal loro codice principale, creando così un libero mercato di algoritmi e modelli di terze parti che gli utenti possono acquistare e installare su qualsiasi piattaforma.

Pensate all’installazione di un modello AI di terze parti su Google Maps che sostituisca quello predefinito e vi permetta di evitare catene di bar o attività commerciali con tendenze razziste o inquinanti. Immaginate di poter acquistare e utilizzare un algoritmo di terze parti su Instagram che protegga le ragazze adolescenti dal bullismo o dall’autolesionismo. Oppure pensate a un plug-in di terze parti per Tinder che renda il vostro profilo invisibile ai vostri colleghi, familiari o ex partner.

Per lo meno questo renderebbe i modelli e gli algoritmi di intelligenza artificiale più trasparenti e più responsabili.

Un’altra soluzione potrebbe essere quella che ho adottato durante il mio periodo di detenzione in isolamento. Usando una penna che avevo rubato e portato con me nella cella, ho continuato a scrivere brevi frasi con lettere eleganti lungo le linee naturali delle pietre di marmo sulle pareti. La mia situazione, le sciocchezze che le guardie carcerarie dicevano o chiedevano, ciò che mi mancava di più, parole di testi di canzoni, consigli per gli altri prigionieri e così via. E ho firmato tutto con la data. Ho continuato a farlo in tutte le tre o quattro celle in cui sono stato trasferito durante i miei otto mesi di isolamento, e ho continuato a farlo anche dopo.

Chiunque abbia trascorso del tempo in quelle celle avrà visto le mie parole, imparato da esse, cantato e ballato su di esse. È così che sono riuscito a sconvolgere le loro verità incarnate e personalizzate.

Il pericolo principale della personalizzazione di massa non risiede nei suoi effetti sulle nostre menti, ma piuttosto sui nostri corpi. Come la maggior parte delle civiltà asiatiche ha capito da tempo, il corpo non è separato dalla mente ed è spesso attraverso il corpo che la mente cambia, non il contrario.

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