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James Dean

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Il broncio del bello e dannato, lo sguardo corrucciato, inquieto e sfuggente, quasi mai dritto verso l’obiettivo della macchina fotografica; come se d’altra parte ci fosse sempre una via di fuga. La sigaretta accesa tra le labbra anche quando gli capitava di accennare un sorriso sfrontato e malandrino quel tanto che bastava per dire fra sé e sé: “Mi chiamo James Dean e di mestiere faccio il ribelle”.

Deve essere stato così che si sentiva James anche quel giorno alla guida della sua “little bastard” (piccola bastarda, ndr) come aveva battezzato la sua amatissima Porsche 550 Spyder. E fu proprio a bordo di quella “piccola bastarda” che il ragazzo con i jeans e la maglietta bianca portata a pelle, perse la vita in un incidente stradale vicino a Cholame.

Era il 30 settembre 1955.

James era col suo fidato meccanico Rolf Wütherich.

Quel maledetto giorno d’inizio autunno “alle 15:30 l’attore viene  multato per eccesso di velocità nei pressi di Mettler, poiché la 550 viaggia a 105 km/h in una zona il cui massimo consentito è 89. […] Dopo aver lasciato le Lost Hills alle spalle, Dean è alla guida verso ovest sulla Route 466, a est di Cholame, quando, in direzione opposta, una Ford Custom Tudor coupé bianca e nera guidata dallo studente 23enne Donald Gene Turnupseed imbocca la Route 41 e s’immette nella corsia di Dean – scrive Federico Fabbri su Veloce.it – Le sue ultime parole, pronunciate poco prima dell’impatto, quando Wütherich dice a Dean di rallentare, sono: “Quel ragazzo dovrà pur fermarsi…ci vedrà![…]”.

E invece…

Aveva solo 24 anni, James. Era nato a Marion l’8 febbraio 1931. Quest’anno avrebbe compiuto novant’anni e sarebbe stato un signore ormai molto avanti con l’età e una vita che chissà come sarebbe andata se non si fosse inceppata sull’acceleratore!

A lui non non è stato concesso di vivere oltre e di invecchiare. Non è stata concessa un’altra alba. La morte ne ha cristallizzato la leggenda e lo ha proiettato in un olimpo di stelle cadute. Precipitate a terra troppo presto.

Del resto, a Dean sono bastati tre soli film girati in diciotto mesi per conquistare un posto al sole: “La valle dell’Eden” del 1955 diretto da Elia Kazan, “Gioventù bruciata” del 1955 di Nicholas Ray e “Il gigante” del 1956 di George Stevens. Tre soli film per farlo entrare nella Storia del Cinema – non un caso i riconoscimenti postumi, come le nominations agli Oscar (nel ’56 e ’57 per La Valle dell’Eden e Il gigante) – e il suo carisma per diventare un simbolo intergenerazionale.

Di lui si parla ancora e si resta abbagliati a sfogliare l’album delle foto in bianco e nero come quelle con la fidanzata italiana:  Anna Maria Pierangeli.

“Pier” e “Jimmie”: un amore furente e romantico il loro.

Riaffiorano le parole precise di quel ragazzo che aveva la capacità di fare rumore proprio come il motore della sua porche: “Se un uomo è in grado di colmare la distanza  tra la  vita  e la  morte, se è in grado di  vivere  anche dopo la sua  morte, allora forse è stato un grande  uomo.”

Brividi.

Parole profetiche pronunciate in vita che giocano d’anticipo con la morte e un destino beffardo. Come se fosse possibile prevedere di vivere anche dopo. Una vita oltre la morte.

Può accadere quando l’alba non spunta più e le lancette dell’orologio sbagliano clamorosamente l’ora degli addii.

È accaduto a James ed è accaduto a Marilyn morta a soli 36 anni in circostanze mai del tutto chiarite. Era la notte del 4-5 agosto 1962. Una domenica d’estate e lei, Norma Jeane Mortenson Baker non c’era più. Evaporata nel peggiore degli incubi insieme alla diva che era diventata col nome di Marilyn Monroe. Evaporata ma mai dimenticata, anzi. Come per James, la morte così prematura ne ha – se possibile – consacrato ancor di più la leggenda. Bellezza e fragilità. Amori, matrimoni e divorzi. Celluloide e compleanni. “Happy Birthday, Mr. President” sussurrava il 19 maggio 1962 al Madison Square Garden, per festeggiare il presidente degli Stati Uniti d’America John Fitzgerald Kennedy.

Col cuore di Norma Jeane e la bellezza sfolgorante di Marilyn.

E vien da pensare che c’è qualcosa di dolorosamente simile nelle albe che si arrendono alla notte.

Roma, 3 febbraio 1960, alle ore 6,30 del mattino, muore in un incidente stradale Fred Buscaglione. Le cronache giornalistiche raccontano che quella mattina l’aspettavano sul set di un carosello con Anita Ekberg. Buscaglione a Cinecittà non arriverà mai. Il torinese, classe 1921 che aveva conquistato tutti con le sue canzoni e non solo, andrà via così. Aveva 38 anni.

Te lo immagini col sigaro in bocca, i baffetti impertinenti e il borsalino in testa e ti vien da cantare sottovoce: “Guarda che luna, guarda che mare,/ Da questa notte senza te dovrò restare/ Folle d’amore vorrei morire/ Mentre la luna di lassù mi sta a guardare…”

Sottovoce come quando riaffiora la faccia di Rino Gaetano e tu bisbigli “di aforismi perduti nel nulla…” e ripensi alla sua ultima alba. Anche lui sapeva giocare d’anticipo e ti prendeva in contropiede con i suoi testi, l’ironia, il dissenso e la poesia, la rabbia e l’irriverenza e lo sguardo. Quel suo sguardo così simile a un punto interrogativo come di chi sa quanto difficile sia guardare oltre, per restare anche dopo. Aveva 31 anni quando, nella notte del 2 giugno del 1981, perse la vita in un incidente stradale a Roma, sulla Nomentana. Una notte da schianto.

E aveva solo 24 anni Luigi Meroni, detto Gigi quando morì poco dopo la fine di una partita tra il Torino, squadra in cui giocava, e la Sampdoria. Investito da un’auto, mentre attraversava corso Re Umberto, a Torino.

E poi Jim Morrison, Kurt Cobain, Amy Winehouse, Jean Baptiste Basquiat…

Sono davvero tante le storie delle albe che si arrendono troppo presto alla notte. Ma non all’oblio degli uomini.


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