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Giampiero Mughini

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UNO come Mughini gli altri non ce l’hanno. Nel panorama culturale europeo, per dire, uno così di testa aperta, neanche sanno immaginarselo. Neppure a Madrid, figurarsi a Berlino. Uno che si fa carico del Novecento per farne magma e viva vena nella contemporaneità sua, tutta di segni e salti mentali oltre il banale ideologico, non esiste.

E i suoi ottant’anni sono incredibili perché – a sentirlo parlare, a leggerlo, a goderselo – Giampiero è quanto di più distante dalla vecchiezza del risaputo, della gnagnera acculturata e dal raglio proprio dei signorsì. Ha appena fatto ottanta anni ed ecco tutte le pagine che ha scritto, tutti gli articoli del suo essere stato giornalista quando il mestiere era un blasone, con quella sua franchezza che lo rende speciale.

Ecco il suo ultimo titolo: “Nuovo dizionario sentimentale” (Marisilio editore, 18;00 euro). Un libro di cognizione dell’immanenza del vivere, tutto di scrittura eretta e orgogliosa, coerente con le storie di cui è prodigo, come quella dell’ebreo polacco Matityahu Shmuelevitz quando, innanzi al tribunale, rivendica di averle avute con sé una bomba e una pistola, di avere anche sparato a un poliziotto inglese per chiamare al banco degli imputati – accanto a sé – la Gran Bretagna per avere tradito il mandato attribuito dai cinquantadue Stati che costituivano le Nazioni Unite: “Perché non mi fucilate e non se ne parla più?”.

È un biglietto di auguri – questo nostro – non una recensione. Un evviva recapitato col comodo del dopo festa, quando la fetta di torta è più che digerita. Ed è sempre uno smottamento di faglie nel planare dell’esistenza quello dei lettori verso i loro autori, da sempre guide nel cammino della memoria di tutti. Fa proprio questo, Mughini, accompagna chi legge – lo incammina – e il lettore è sempre grato di ritrovarsi dentro pagine che sono rocce in movimento, sovrascorrimenti di sogni, giorni e sconfitte, perfino. Come la pipa di René Magritte non è una pipa, così il Mughini di se stesso non è Mughini, è un capolavoro surreale fatto di carne, ossa e messa in opera di parola, scrittura e stile. E Mughini davvero mai – ma proprio mai – ha lisciato il pelo dal verso giusto, anche votando il Pd che è il lasciapassare di tutte le carriere, Mughini che a differenza di tutto il comparaggio di regime non è mai stato in ogni istante della sua vita un comunista, la pensa al modo tutto suo – con la liberalità propria dell’uomo di genio – spezzando la crosta d’imbecillità e conformismo, quella stessa che da sempre ottunde gli italiani, come già Leonardo Sciascia gli disse a proposito di Leo Longanesi: “Spezzava la crosta d’imbecillità e conformismo da cui era dominata l’Italia negli anni del fascismo”.

Una catena logica e illogica al contempo questa che mette in fila Longanesi-Sciascia-Mughini. Una sequenza elettrizzante odorosa di pagine, inchiostro di china e serigrafie e nessuno pensi a chissà quale coincidenza geografiche tra sangue di Romagna e zolfatare di Sicilia perché sia il Maestro di Racalmuto, sia Giampiero – di Marradi per parte di padre, catanese per parte di madre – non possono essere ricondotti al pittoresco siciliano, anzi, sono proprio francesi nell’essenza.

Da Diderot al Maggio parigino, in lungo e in largo, s’intrecciano le loro esistenze. Altro che ciuri-ciuri. E Mughini, ebbene sì, se non l’erede, è il successore dell’autore de L’Affaire Moro. C’è un tenace concetto tutto di contropelo, infatti, tra il vecchio e il giovane. Nella fatica dell’intellettuale – nel dovere del discorso di verità – Mughini lavora nella stessa vigna che fu di Sciascia. Ne prende il metodo. Non foss’altro per avere scandagliato – il nostro Giampiero – il Caso Calabresi, prendendo di petto il sussiego complice dell’Italia altolocata, indifferente al sangue di un Commissario. Come già aveva fatto Sciascia – nel metodo, appunto – col Caso Moro. Per accusare tutto un sistema cui faceva comodo un Aldo Moro morto.

Ma a mille ce n’è di storie, con Mughini. E mille di favole. Tutte di colori e manufatti che solo lui sa vivere e svelare, e sempre al modo dello sciamano. Con quelle sue mani, le mani sue con promana la fabula ipnotica di essere Giampiero. Giampiero Mughini coi suoi ottant’anni è l’unico personaggio popolare su cui la definizione di “intellettuale” non stride, anzi. Più si mette in gioco, ancor più rende merito alla missione del dotto che non è quella di starsene nel bozzolo della conventicola – tra i ragli dell’io-io-io – ma col pubblico di Rete4 che è l’Italia reale alla quale la sua cultura risulta acqua pulita, fresca, squisita. Come quando dice “atte” in luogo di “appropriate”, “idonee” o “confacenti”. Come lo dice lui “atte” nessuno. E uno come Mughini, appunto, nessuno mai.


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