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Jorge Luis Borges

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ALTO sul suo cavallo, circondato dal malinconico crepuscolo, il colonnello Francisco Borges, cavalca e va incontro alla morte che paziente «spia dai fucili» e lo aspetta. «Tristemente Francisco Borges va per la pianura», la pampa infinita, ossia il paesaggio che ha visto per tutta la vita. Il colonnello Borges era il nonno di Jorge Luis Borges che lo “vede” allontanarsi, impenetrabile ai versi scritti quasi cent’anni dopo dal celebre nipote, poeta impenetrabile alle sue parole, «appena sfiorato dal mio verso».

Borges, il grande poeta, scrittore, saggista, traduttore argentino lascia il nonno nel suo mondo epico e non è più in grado di carpire il segreto della sua vita. Siamo in presenza dello «splendore inalterabile dell’accadere che sfugge alle acrobazie dell’intelligenza e alla pomposa geometria delle parole, che si illudono di definire la vita e sperano di quantificarla». (C. Magris). Borges è autore di pagine di altissima poesia e di una prosa in grado di offrire a chi lo legge continue sorprese. Vale la pena ricordare che una volta Borges ha detto che «lasciava agli altri di gloriarsi dei libri che avevano scritto e che la sua gloria erano invece i libri che aveva letto».

Borges è il poeta dell’essenziale e della disumanità insita in ogni purezza, apparente, di fronte alla totalità della vita. Soltanto letture superficiali della sua opera possono fare di Borges il simbolo e il cantore di una raffinatezza manieristica impermeabile ai sentimenti, espressione di un compiaciuto artificio, di una letterarietà superba ed estranea alla vita. Anzi, Borges è il cantore della nostalgia della vita, della sua semplicità profonda e struggente, della sua verità inattingibile e perduta. C’è una malinconia del mutamento che attraversa la sua poesia e il suo pensiero. Borges amava il tango che, come ha scritto Enrique Santos Discepolo, musicista, compositore e regista argentino, è «pensiero triste che si balla»; una danza che è una “grazia rara” che si accompagna al dono dell’istante, all’epica di un riscatto, forse, impossibile, al sogno di una liberazione sempre di là da venire. Ma, questa “grazia rara” basta a rendere indelebile la verità di un uomo. Le sue pagine sono profonde, le «più grandi che siano state scritte sul rapporto tra vivere e scrivere». Potrei aggiungere tra vita e pensiero.

Possiamo dire che Borges ha saggiato le possibilità letterarie della filosofia? Borges, certamente, da poeta, ha avuto una grande sensibilità filosofica. Nella sua opera, c’è una profonda attenzione per i miti, le dottrine, i poemi, le narrazioni sull’origine e la formazione dell’universo. Non sarebbe così complicato stabilire paralleli tra Borges, Eraclito, Hume, Barkeley, Nietzsche e Schopenhauer. Pensiamo al tema del tempo, di cui parla, in particolare in Storia dell’eternità, in cui sviluppa un teso corpo a corpo con Platone e Plotino e con le vertiginose speculazioni della teologia cristiana, da Sant’Agostino a Sant’Ireneo di Lione, sull’eternità e la Trinità come dinamismo eterno e interno a Dio stesso. «Il tempo è la sostanza di cui son fatto. Il tempo è un fiume che mi  trascina, ma io sono il Fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco. Il mondo disgraziatamente è reale; io, disgraziatamente sono Borges».

Il tempo «immagine mobile dell’eternità», come affermava Platone nel Timeo. Ma poi c’è un tempo che ci riguarda e che non sappiamo definire. L’eternità è una parola inconcepibile, afferma Borges. È solo una immagine per la nostra speranza umana troppo umana. Immagine, illusione? Ha scritto Borges: «Traggo anticipatamente questa conclusione: la vita è troppo breve per non essere anche immortale e aggiunge – ma non abbiamo nemmeno la sicurezza della nostra povertà, poiché il tempo, facilmente confutabile nell’ambito dei sensi, non è tuttavia confutabile in quello intellettuale della cui essenza sembra inseparabile il concetto di successione». La sfida posta dal “Tempo”, il suo trascorrere, ha un ruolo fondamentale anche nella storia delle religioni, in cui c’è una sorta di “rispetto per il tempo”, per non perdersi nell’indistinto, attraverso la periodicità e la ricorrenza delle festività, dei cicli solari e lunari. Elementi che, come ha insegnato Mircea Eliade, servono a rompere l’omogeneità del tempo e a costruire una porzione della sua sacralità.

Ma resta tutta la fatica concettuale per afferrare il senso del tempo. Lo stesso Sant’Agostino nelle Confessioni, dichiarava di non saperlo spiegare. Lo sentiva, lo sperimentava nella propria esistenza, come accade a tutti noi, ma poi definirlo era un compito vertiginosamente complesso. Cosa sono passato, presente e futuro? Cos’è l’eterno ritorno dell’uguale, l’attimo eterno? In un’intervista del 1979 Borges disse di aver usato la filosofia e la metafisica come strumenti letterari e di non ritenersi un pensatore, di non essere capace di produrre pensieri suoi. Le interpretazioni che i filosofi hanno fornito del mondo possono dunque essere intese come finzioni fantastiche e metafisiche capaci d’individuare questi “interstizi”, finzioni che, in quanto tentano di rendere ragione di un ipotetico mondo reale, non possono tuttavia fare a meno di escogitare spiegazioni che vadano oltre l’esperienza più immediata e realistica. Anche per questa ragione Borges preferì sempre la forma del racconto al romanzo lungo: perché riteneva questo genere letterario incline a riempire di circostanze le storie narrate e distratto dal vano tentativo di rappresentare la realtà.

La vedova di Borges, Maria Kodama, minuta, con lineamenti orientali, di ascendenza giapponese, con incredibile potenza espressiva richiamava le passioni e il carattere del marito: «Bisognerebbe chiamarlo Borges di Buenos Aires, aggiungendo al suo nome quello della città, esattamente come facevano gli antichi greci con i loro filosofi: Pitagora di Samo, Talete di Mileto». Al di là dalla «ragnatela del suo soave scetticismo, dal suo farraginoso enciclopedismo, dal suo ecumenismo eclettico», nell’opera di Borges ci si trova immersi nel mito e nella storia. In questo senso, nell’orizzonte sconfinato dell’universo “creativo” di Borges, c’è una profonda attenzione per i temi biblici e per quelli della fede.

La Bibbia è stata una presenza costante nella vita di Borges che riteneva vi fosse un trittico di storie capitali nella storia dell’umanità: l’Iliade, l’Odissea e, quello che chiamava il terzo “poema”: le storie bibliche, appunto. La sua era una vera passione per la Bibbia. In Siete conversaciones con Borges, lo scrittore afferma: «Di tutti i libri della Bibbia quelli che mi hanno impressionato sono il libro di Giobbe, l’Ecclesiaste (o Qohelet), i Vangeli. Sarebbe troppo complicato seguire tutti i passaggi evocati da Borges nella sua opera, tratti dalla Bibbia, le immagini, le figure, i personaggi. Molte sue opere sono dei veri e propri commenti e interpretazioni dei testi biblici. Penso in particolare a L’Aleph. Caino e Abele, il tema della colpa. Il volto di Cristo che è da ricercare negli specchi ove si riflettono i volti umani. Il termine “parola”, logos, davar, Wort, che Goethe, nel Faust tradurrà come forza, atto, (proprio come la parola davar, che in ebraico significa parola e cosa), è al centro di profonde analisi e meditazioni da parte di Borges. Non sono solo codici linguistici. A più riprese Borges aveva espresso il suo desidero di essere ebreo. Borges nutriva una vera fascinazione per il misticismo ebraico e per la Qabbalah.

Vorrei solo ricordare, a questo proposito, la stima profonda che il poeta Borges nutriva per lo scrittore spagnolo Rafael Cansinos-Assens, che fece del ritorno all’ebraismo la cifra e lo scopo della sua vita. La loro amicizia aveva qualcosa che travalicava la semplice stima “professionale. Borges lo considerava un Maestro e l’ebraismo era per Borges luogo di incontro di civiltà e, soprattutto, una tradizione in cui la “parola” è tutto. Al momento della morte, accanto al letto, aveva il  Livre de Poche  di  Voltaire e i Frammenti di Novalis. Un momento solenne, quello dell’addio alla vita terrena, in cui ancora una volta oscillarono sospese l’ironia e l’immaginazione, la luce e la penombra.


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