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Michela Murgia, scomparsa nelle ultime settimane

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MICHELA Murgia ha scritto, tra le altre cose, una guida letteraria della Sardegna. Lì, a un certo punto, scrive che la Sardegna è una terra dove “ogni spazio apparentemente conquistato nasconde un oltre che non si fa mai cogliere immediatamente, conservando la misteriosa verginità delle cose solo sfiorate.” Lo sguardo di Murgia, sulle parole, sui concetti, sugli eventi storici e sociali del suo tempo, sulle persone, è il medesimo che aveva allenato posandolo sulle apparenti asperità del paesaggio sardo, sulle pietre brulle come sulle scogliere irte, sulle tradizioni e sulle genti: era uno sguardo disvelatore, dissestante, squilibrante, creatore di complessità.

Un altro dogma non scritto della nostra epoca è che rifugga la complessità, che ogni cosa sia diventata talmente stratificata, difficile, da preferire che torni, improvvisamente, sinistramente, semplice da interpretare. Un’espressione che Murgia usa in maniera trasversale nei suoi scritti, che siano sul Fascismo, sul femminismo, sulla collaborazione sociale, sulla religione, è quella della “riappropriazione della complessità”. Ed è questa strenua trasversale difesa della complessità forse una delle cose che meno le si è perdonata in vita. In Istruzioni per diventare fascisti, Michela Murgia spiega che, in qualsiasi contesto, “la deriva fascista appare quando chi governa non pensa più di doverti spiegare la complessità, ma solo di doverti chiedere consenso su cose semplici.” Non è tanto la presenza formale di meccanismi democratici a determinare l’assenza di fascismo, quanto se sia vitale e libero il dissenso.

Michela Murgia era un’intellettuale vera, una dei pochi in Italia oggi, proprio nel momento in cui vedeva nei concetti e negli eventi quello che c’era oltre il terreno già conquistato, quello che, solo sfiorato, sfuggiva a una definizione univoca ma, nonostante questo, esisteva e andava detto. Una volta citò una frase di Danilo Dolci che diceva così: “siamo in grado di superare quel che siamo solo se qualcuno è disposto a investire il suo tempo per immaginare quello che ancora non siamo”. Non si faceva fermare dalla difficoltà di dire questi concetti, di descriverli così diversi dalle apparenze consolidate, tradizionali e condivise, nonostante questo la esponesse, facesse sì che fosse tacciata di aggressività, di arroganza, di faziosità. Lo faceva, invece, in nome della sua propria concezione di speranza: “Gli uomini spesso scambiano l’ambizione con la speranza. L’ambizione è il desiderio che le cose che fai si realizzino così come le vuoi; la speranza è la certezza che fare quelle cose abbia un senso comunque, indipendentemente da come finiranno, perché ci sono cose che vanno fatte solo perché è giusto e necessario.” È, quest’ultimo, un concetto piuttosto controintuitivo in una società in cui ti si perdonano idee non conformi solo se destinate a un tornaconto, al successo o all’appoggio popolare.

Ma un altro dogma abbattuto dalla vita e dalle parole di Murgia è proprio quello della prevalenza della forza: ossia che sia necessario disporre di una certa forza per poter agire contro una forza superiore che ti schiaccia. Murgia, in uno dei suoi più famosi articoli, scrive che “prendere una posizione pubblica su ciò che ritieni giusto non ha alcun collegamento con il numero di follower di cui disponi”, ossia, tradotto nella vita non virtuale, che non importa quanto piccola sia la tua esistenza, quanto poco ritieni di contare socialmente, questo non ti esime dal prendere pubblicamente una posizione che ritieni giusta, a casa tua, sul lavoro, per strada, ribaltando l’idea, fino ad allora subdola, viscerale, ma pacifica, che solo chi è più forte di te può difenderti. In quell’articolo invece Murgia parla di un concetto commovente e rivoluzionario che è quello della “parità fragile” condivisa o della simmetria dei rapporti di fragilità.

Un’altra cosa che non si perdona a Murgia sono la molteplicità e la profondità dei rapporti d’amore che ha saputo creare, a cerchi concentrici, tra le persone della sua vita e quelle che l’hanno letta. Dal momento che Michela Murgia non è madre biologica, ossia è una donna che ha tradito la sua funzione, ha abdicato alla creazione dei rapporti di sangue, le si vorrebbe negare una famiglia, negare un’eredità, la maternità, i rapporti di filiazione. Ma tutto questo già esiste è ed è stato. Murgia ha messo in pratica quella che chiama arte di relazione, il cui significato: “non è nella forma o nella materia, ma nel processo che genera tra le persone, durante il quale perde di importanza l’opera finale e assume centralità l’incontro, la scoperta dell’altro, il legame che ne deriva.” Murgia ha, nella sua vita e nel suo lavoro, creato e svelato legami tra donne e donne, uomini e donne, ragazzi e adulti, parole distanti, concetti alti e popolari, queerness e religione, persino tra gli uomini e Dio. Legami nuovi, inusuali, diversi, fino a quel momento invisibili, legami in cui conta più la volontà che il sangue, legami storti e trasversali, “diagonali”, non certificati, autorizzati, stratificati, avvalorati, e quindi fondati su due soli valori per lei imprescindibili: libertà e responsabilità.

In Noi siamo tempesta, Murgia scrive: “Non ho l’ambizione di fare musica da sola, mi basta essere musica tutti insieme.” Michela Murgia, insieme alla sua famiglia d’anima e spirituale, allargata e vicina, si è abbattuta, in questo senso, su tutti i dogmi che diamo assodati in questo nostro tempo stancamente moderno, con quell’ “assenza di calcolo e di misura che appartiene solo alle cose nate libere.” Riprendendo le commoventi parole di commiato di Chiara Valerio, pronunciate alla sua morte avvenuta un mese fa, auguro a noi tutti che succeda ancora, che oggi e sempre pioverà Murgia su tutti noi, che tempesterà, allegra e terribile, sopra le nostre teste, facendo bufera, lei in alto, noi in basso, insieme.


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