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Paolo Crepet

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“PRESTO che è tardi” gridava il bianconiglio di Alice, nel suo Paese delle Meraviglie, correndo affannosamente, in un perenne ritardo, verso un qualcosa da fare. Un “presto che è tardi” che da sempre appartiene alla società occidentale e nello specifico alle nostre vite, fatte di orari, scadenze, impegni, mille impegni per provare a riempire i vuoti del tempo per paura, forse, di ritrovarci faccia a faccia con la nostra solitudine interiore. Capita però che un grande imprevisto sbuchi all’improvviso da dietro l’angolo e, scompaginando i piani, costringa a fermarsi. È quello che sta accadendo in queste settimane in tutto il mondo. Si sono interrotti i rapporti sociali con il grido – giusto, giustissimo – del “restiamo a casa” perché una pandemia, il Covid-19, ha preso in ostaggio il mondo, incatenandolo.

In un’atmosfera claustrofobica e surreale, fatta dalle mura di casa, il caposaldo per non sgretolarsi interiormente è non crollare e avere fiducia nel futuro. Ma in questa situazione come si fa a non lasciarsi andare? Lo abbiamo chiesto al professor Paolo Crepet, psichiatra.

In un momento critico come quello attuale, professor Crepet, sono cambiate le abitudini degli italiani. Quali consigli si sente di dare per sfuggire all’angoscia di dover stare per forza in casa?

«Non c’è una ricetta. Ognuno di noi ha bisogni e necessità – sia dal punto di vista culturale che sociale – diversi. C’è chi non è terrorizzato dall’idea di passare qualche ora da solo e c’è invece chi tutto questo lo percepisce come un grande problema. Chi è abituato a una vita molto frenetica, vive questa quarantena, questa forzatura con maggiore disagio rispetto a chi gestisce le sue giornate in maniera più tranquilla».

Come si deve spiegare ai bambini ciò che sta accadendo?

«Ai bambini bisogna dire le cose. Si è soliti farsi tanti problemi con i più piccoli e questo lo trovo molto sbagliato perché loro capiscono. Naturalmente bisogna usare un linguaggio che sia consono alla loro età. Bisogna dire che c’è una malattia, bisogna stare attenti, lavarsi le mani, senza terrorizzarli ma tenendoli informati».

Per far sì che lo stare a casa forzatamente non diventi per loro motivo di nervosismo quali attività consiglia di fargli fare?

«Guardi, i bambini di oggi sono circondati in casa da giochi, non credo che possano annoiarsi anche perché, se lo raffronto nel periodo in cui io sono cresciuto, ricordo che tutta questa smania di fare non c’era. I bambini sanno sempre inventarsi dei modi ludici per trascorrere il tempo».

E invece, professore, come possono affrontare la convivenza quelle coppie che non vanno d’accordo e che adesso, per forza, si ritrovano a condividere gli stessi spazi della stessa casa per l’intera giornata?

«Un dato da non trascurare, a mio avviso inevitabile, che porterà certamente a qualche statistica non piacevole, è che molte coppie si troveranno ad affrontare problemi di incompatibilità caratteriale. La convivenza forzata per tanto tempo è un banco di prova difficile. Prendiamo, ad esempio, quello che è successo in Cina dove con i coprifuoco sono aumentate le separazioni del 30%».

Questo fenomeno pandemico che sta coinvolgendo tutto il mondo avrà delle ricadute sociologiche e psicologiche?

«Sì, avrà delle ricadute sia a livello sociale che psicologico perché è impossibile che non accada. Non abbiamo mai vissuto una cosa di questo genere. Non si sono mai viste le città come in queste ore. Nessuno di noi ha mai vissuto tanti giorni senza una cena con gli amici o i parenti, senza un incontro sociale, senza la possibilità di andare a una conferenza. Questa è una cosa nuova dove nessuno si deve mettere a fare il mago per prevedere cosa accadrà anche perché lo sbaglio è dietro l’angolo. Non ci sarà una reazione ma ce ne saranno tante. Basti pensare alla geografia dell’Italia. Milano non è Palermo. Le reazioni sono diverse anche dal punto di vista emotivo, culturale, sociale. È molto difficile capire i cambiamenti e prevederli. Questo virus ci ha messo di fronte all’ingestibilità delle previsioni».

Professor Crepet, ci sono persone che vivono da sole e la tecnologia viene in aiuto. Vivere attraverso la virtualità per cercare “contatto umano” può portare poi a una alienazione della realtà?

«Meno male che c’è, anche se non c’è solo la tecnologia. Una cosa che mi ha molto sorpreso è il calo drastico del numero delle persone che leggono. Consiglierei di andare in edicola e comprare i giornali, la settimana enigmistica, il giornale di gossip per la nonna e leggere. Ma perché la gente non legge più? La tecnologia non può essere l’unica ancora di salvezza. Mettersi su un divano e sfogliare una rivista o leggere un romanzo credo che possa essere un buon diversivo per occupare il tempo».

Se leggere può essere un diversivo per evadere, come possono invece far viaggiare la mente quelle persone che vivono nelle case senza un affaccio, semmai sprovviste anche della tecnologia?

«Bisogna ritrovare e far ricorso alla creatività, una caratteristica che appartiene molto a noi italiani. La creatività non vuol dire essere grandi artisti ma risiede nelle cose manuali alla portata di tutti. Andare giù in garage, ad esempio, e inventarsi un hobby. Ci sono tante cose che si possono fare con le mani. Noi siamo disabituati all’uso delle mani che servono solo per la tastiera. Bisogna riprendere la manualità».

Professore, di Covid-19 ormai si parla ovunque. Tutti i giorni la televisione, i social, i giornali inviano un bombardamento di informazioni che non fanno altro che creare una saturazione cognitiva. Fa bene alla nostra mente parlare e ascoltare solo di queste notizie?

«La cosa importante è che le informazioni veicolate siano scientificamente corrette. Evitiamo di credere alle sciocchezze, tipo che basta un po’ di Vitamina C e ci rimettiamo a posto. Queste sciocchezze da popolo medievale le eviterei. Finalmente si è capito quanto è importante sapere le cose, la conoscenza delle cose. Sono stati bistrattati gli scienziati, si sono creati comitati contro i vaccini, adesso vorrei chiedere al capo dei no-vax se lui, sapendo che c’è un vaccino per il coronavirus, non se lo farebbe».

Le misure restrittive per evitare il contagio messe in campo dal governo, secondo Lei, avranno conseguenze psicologiche simili allo stress post-traumatico?

«Sicuro».

Cambieranno i nostri rapporti sociali?

«Cambieranno, certo. Come non lo so. Queste cose hanno tappe diverse nella loro evoluzione. C’è una prima fase in cui si è pervasi da una forma di euforia, nel senso che ci si ritrova con tanto tempo a disposizione dove non si deve per forza far qualcosa, lavori un po’ da casa, si recuperano tante ore, quelle del traffico, della metropolitana. Tutto questo sparisce. Questo dà anche un senso di piacere perché avendo a disposizione del tempo, puoi fare cose. Subito dopo, però. Subentra la seconda fase che è opposta alla prima, è quella depressiva. Ci si incomincia a chiedere quando questo finirà, quando si potrà uscire come prima. Una fase che una volta innescata sarà più problematica da gestire. Anche se il problema è da prendere in senso personale. Anche in questo caso dipende dal ceto sociale, dal livello di solitudine. C’è gente che non sa a chi telefonare e ci sono persone, invece, che con tanti amici, trascorrono il loro tempo al telefono».

Se lei, in questo momento, potesse fare una richiesta al governo, cosa chiederebbe?

«Chiederei che tutte le donazioni spontanee che stanno arrivando siano per la ricerca scientifica, per gli ospedali, per i dispositivi di protezione che mancano e che siano detassate al 100%. Il governo, se vuole, può farlo».

Il governo è arrivato tardi nel fronteggiare questa emergenza?

«Con il senno del poi siamo tutti professori. Questa è stata una cosa che ci ha preso tutti alla sprovvista. Prima di aver chiara la situazione, il pensiero comune era quello che questo virus fosse una violenta influenza. Purtroppo non è stato così. Ora sarebbe sbagliato mettersi con il lapis rosso e blu e sottolineare gli errori. Adesso le cose le abbiamo finalmente capite. D’altra parte io difendo anche la progressione dell’iniziativa di governo. Capire che le persone vanno avviate gradualmente a questo cambiamento. Certo, potevamo farlo prima».

Insieme al coronavirus si sta facendo largo un’altra forma di virus: quello economico. Forse c’è già ed è nella struttura delle cose. La mente umana come riesce a non crollare davanti a un’idea di futuro dove ci saranno anche altri problemi non certo irrilevanti?

«La progettualità. In questi momenti bisogna pensare al futuro progettando. Non è necessariamente tutto male quello che nuoce. Tutto però dipende dalla personalità di ognuno di noi».

Ha paura?

«No, non mi spaventa questa situazione. Molto più del coronavirus mi fanno paura gli stupidi, gli ignoranti, gli arroganti e i presuntuosi».


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