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La Brigata Maiella durante la liberazione di Bologna il 21 aprile del 1945, foto da www.laprima pagina.it

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COME reagireste se vi dicessi che “Bella Ciao” non è stato il brano più cantato dai nostri partigiani e che deve il suo successo a una vera e propria invenzione della tradizione che si è consolidata solo a guerra conclusa e con una serie di passaggi e stratificazioni successive?

A raccontare la genesi e la diffusione del canto della resistenza italiano più noto al mondo è Cesare Bermani in un saggio dal titolo “Bella ciao, una canzone della Brigata Maiella”, contenuto nel volume Brigata Maiella, Resistenza e Bella ciao. Combattere cantando la libertà curato da Nicoletta Mattoscio e appena pubblicato da Rubbettino. Il termine “invenzione” accostato a “tradizione” non deve far saltare sulla sedia quanti hanno a cuore l’eredità culturale, politica e spirituale della Resistenza, né indurli a gridare alla lesa maestà.

A scanso di ogni equivoco dichiaro subito che chi scrive è socio onorario ANPI nonché nipote di un fiero partigiano, scomparso due anni fa. Uso “tradizione inventata” nel senso in cui la usa Eric Hobsbawm nel celebre saggio L’invenzione della tradizione ossia come “un insieme di pratiche, in genere regolate da norme apertamente o tacitamente accettate, e dotate di una natura rituale e simbolica che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità col passato” insomma una sorta di mitopoiesi che dando origine a una storia collettiva e condivisa contribuisce a creare il senso di appartenenza.

Ma torniamo a “Bella Ciao”. Stando a quanto scrive Bermani il canto era sconosciuto a molte formazioni partigiane mentre circolava diffusamente nel Modenese e nel Reggiano, a partire dal 1944. D’altronde lo stesso Giorgio Bocca ebbe a dichiarare pubblicamente “Nei venti mesi della guerra partigiana, non ho mai sentito cantare Bella ciao”. Dalle testimonianze raccolte dall’autore nel saggio pare che le versioni di “Bella ciao” che circolavano in Emilia e che venivano cantate dai patrioti della Brigata Maiella fossero in realtà diverse benché accomunate dalla melodia e da alcuni elementi simili che rimandavano tuttavia a un brano ancora più antico che avrebbe fatto da archetipo delle diverse varianti della canzone che sarebbero venute dopo. Il brano in questione era “Fior di tomba”, cantato principalmente nelle risaie padane e pubblicato per la prima volta da Costantino Nigra nel volume del 1888 Canti popolari del Piemonte. Successivamente il canto godette di una certa notorietà tra i soldati che parteciparono al primo conflitto mondiale.

Leggendo il testo di “Fiori di tomba” è possibile intravedere gli elementi principali che avrebbero poi fatto da base per il riadattamento in chiave partigiana della canzone. “Stamattina mi sono alzata / un’ora prima che leva il sol / Mi san messa alla finestra / e mi go visto el me primo amar / l’era in braccio d’una ragazza / una ferita mi viene al cor. / Cara mamma serè la porta / che qua no entra mai più nisun / Cara figlia sta alegra e canta / sta alegra e canta sta qua con me / Farem fare una casetta / e ci staremo tutti e tre / Prima mio padre poi la mia madre / e il mio amore in braccio a me / E la gente che passeranno / dimanderanno cos’è quel fior / Quello è il fiore della Rosina / che Ve morta del troppo amor”. Lo stesso Bermani in un volume pubblicato lo scorso anno da Interlinea dal titolo Bella ciao: Storia e fortuna di una canzone racconta come questo canto d’amore già dopo la disfatta di Caporetto avesse conosciuto delle rielaborazioni in chiave protestataria. Ecco un frammento di una delle versioni dell’epoca riportato dallo studioso in cui si può osservare la comparsa dell’elemento “Bella ciao” che diverrà caratteristico del successivo canto della Resistenza: “Una mattina mi son svegliato / o bella ciao, ciao, ciao o bella ciao, ciao ciao / una mattina, mi son svegliato / e sono andato disertor”. Bermani, nel saggio citato all’inizio di questo articolo, riporta poi il testo della canzone così come conosciuto e cantato dalla Brigata Maiella (ovviamente facciamo tutte le avvertenze del caso sulla mutabilità dei testi trasmessi principalmente per via orale): “Questa mattina mi sono alzato / bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao, / mi sono affacciato alla finestra / e ho visto il primo amor / / Io me ne vado lontano lontano / bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao / me ne vado lontano lontano / tra le palle di cannon. // E s’io morissi da patriota / bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao / mi seppellisce al camposanto / sotto l’ombra di un bel fior. // Tutte le genti che passeranno / bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao / tutte le genti che passeranno / diranno che bel bel fior // È questo il fiore della Maiella / bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao / questo è il fiore della Maiella / del patriota che morì”. Il canto, con i movimenti delle truppe partigiane, raggiunse poi il nord Italia negli ultimi mesi di guerra subendo ulteriori mutazioni e adattamenti.

La storia di “Bella ciao” però non si esaurisce con la guerra, il testo che noi riconosciamo oggi come autentico e tradizionale è il frutto di elaborazioni successive, di adattamenti, di interpolazioni. Come spesso accade con le tradizioni e come il libro di Hobsbawm che abbiamo citato insegna, quelle che noi riveriamo come tradizioni antiche non sono che il frutto di un lento lavorio e di un successivo uso sociale che termina con una forma di cristallizzazione che, però, appare spesso anch’essa precaria. Come racconta Bermani, il canto comincia ad essere identificato quale canto simbolo della resistenza a guerra conclusa. Nel 1945 a Londra, i rappresentanti delle associazioni antifasciste di oltre 63 Paesi decidono di organizzare ogni due, tre anni un festival mondiale sui temi della pace. “Bella ciao” sarà uno dei canti più eseguiti, tradotto in più lingue, al festival di Praga del 1947, a quello di Budapest del ’49 e quello di Berlino del ’51.

L’incredibile successo della canzone è certamente da ascrivere al ritornello facilmente orecchiabile che contiene due delle parole italiane più note al mondo “Bella” e “Ciao” e al battito di mani che ne accompagnava l’esecuzione e che certamente, in quel contesto, assumeva una funzione non solo aggregante ma, possiamo immaginare, quasi catartica. Anche grazie al suo successo internazionale il canto entrò a far parte dei repertori delle varie corali e a comparire nei vari canzonieri. Fu infine il festival di Spoleto a sancirne la definitiva consacrazione grazie allo spettacolo “Bella ciao” del 1964. Furono proprio gli anni Sessanta, spiega Bermani, quelli in cui il canto si diffuse capillarmente. Erano gli anni in cui la Resistenza e la guerra di liberazione cominciarono a essere sempre più identificati come il momento fondativo della Repubblica.

La Resistenza veniva finalmente letta come momento che accomunava la Nazione e non solo una parte politica. In questo clima di ritrovata (o quanto meno di ricercata) pacificazione nazionale, “Bella ciao”, contrariamente a “Fischia il vento”, che pure era stata sicuramente la canzone più cantata dai partigiani al Nord (sotto nella versione cantata da Milva), si prestava a quella funzione ecumenica e identitaria di cui la società italiana aveva bisogno.


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