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Benito Mussolini e Galeazzo Ciano

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La nottata in cui la storia del regime fascista cambierà per sempre, il Gran Consiglio del Fascismo approva la sfiducia al Duce Benito Mussolini

In una Roma semivuota, nell’afosa notte tra il 24 e il 25 luglio del 1943, quando la guerra appariva oramai perduta e il Paese era allo stremo, si tenne a Palazzo Venezia, a oltre tre anni e mezzo dalla sua ultima seduta, il Gran Consiglio del Fascismo, che “sfiduciò” Benito Mussolini con l’approvazione dell’ordine del giorno presentato da Dino Grandi, presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni.

«Il Gran Consiglio – questo il passaggio-chiave del documento scritto e letto dall’influente gerarca – dichiara […] l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali […]; invita il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re […] affinché Egli voglia per l’onore e per la salvezza della Patria assumere con l’effettivo comando delle Forze Armate […] quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono […]». Con il collasso politico-istituzionale del 25 luglio si era arrivati all’atto finale della decomposizione del regime fascista.

In quella «torrida estate» giungeva a maturazione la svolta decisiva nell’andamento del secondo conflitto mondiale, tanto sul piano internazionale, quanto su quello interno. Dopo le battaglie di El Alamein in Nord-Africa e di Stalingrado in Unione Sovietica, andava profilandosi il fallimento dell’«assalto al potere mondiale» da parte del nazifascismo, che divenne evidente con la vittoria dell’Armata Rossa nel più gigantesco scontro di carri armati nel saliente di Kursk, con l’offensiva statunitense nel Pacifico e il rovinoso cedimento dell’Italia, il «ventre molle» dell’Asse (Winston Churchill).

Ad onta della spavalda sicurezza con cui il Duce esortò nel «discorso del bagnasciuga» a inchiodare le truppe alleate sulla battigia, non appena avessero tentato di mettere piede in Sicilia, l’Operazione «Husky», scattata il 10 luglio 1943, una delle più imponenti operazioni aeronavali della guerra (2.800 navi con 160.000 uomini, 600 carri armati e 1.000 cannoni), portò nel giro di quasi due mesi alla conquista anglo-americana della grande isola del Mediterraneo.

Né servì a impedire il precipitare dell’Italia nel baratro della disfatta la riunione di Feltre del 19 luglio ´43 tra gli stati maggiori italo-tedeschi, tra un Hitler preoccupato e adirato e un Mussolini stanco, fisicamente sofferente e soprattutto incapace di farsi ascoltare e aiutare dal potente quanto diffidente partner. Proprio quel giorno, a centinaia di chilometri di distanza dal vertice italo-tedesco, Roma subiva il primo, terrificante bombardamento alleato, che provocò circa 3.000 morti e 11.000 feriti, nonché distrusse 10.000 case, lasciando 40.000 cittadini senza tetto. Al termine di quel micidiale attacco dal cielo, Pio XII si recò a visitare le zone colpite, dando la sua benedizione alle vittime sul Piazzale del Verano.

Si era alla resa dei conti per il regime fascista, che aveva trascinato il Paese nell’avventura del più grande conflitto bellico della storia, senza modernizzarne e irrobustirne l’apparato produttivo e la macchina militare, anzi depauperandone le risorse disponibili prima con l’aggressione all’Etiopia (1935-´36) poi con la partecipazione alla guerra civile spagnola (1936-´39). Di qui la sequela ininterrotta, per tre anni, di cocenti sconfitte in Grecia, in Africa, nella lontana e gelida Russia.

Il susseguirsi di notizie catastrofiche di lutti e di ritirate dall’Urss all’Africa rese sempre più dura e angosciosa la vita delle comunità e popolazioni, rurali ed urbane, alle prese con i problemi derivanti dagli sfollamenti, dalla devastazione di edifici e dimore, dall’incombere della miseria e della penuria alimentare, dal vacillare dell’intera struttura amministrativa e statale. La situazione più drammatica era quella di Napoli, la «regina del Mediterraneo», il «porto dell’impero», ‘seppellito’ da un diluvio di bombe, che costrinse tanti suoi abitanti a stabilire il proprio domicilio nelle cantine, ammassandovi poltrone, fornelli e materassi.

Con il montare del malcontento, sempre più serpeggiante in larghi strati della società, si offuscavano irreparabilmente il prestigio del regime e la popolarità del Duce; regime e Duce sul banco degli accusati per aver condotto il Paese alla rovina, per aver fallito la sfida cruciale della prova bellica. Fu con la guerra che il fascismo perse la sua scommessa storica: uno scacco bruciante per quanti – gerarchi e propagandisti – avevano alimentato incessantemente il mito della proiezione espansiva, del destino imperiale dell’Italia, erede dei fasti dell’antica Roma. Furono i morti nei deserti africani, sui monti balcanici, nelle nevi russe, il razionamento dei viveri, l’intensificarsi dei bombardamenti aerei sui principali centri urbani a mostrare la distanza, non più occultabile, fra propaganda e realtà; a scavare un fossato incolmabile tra il regime e gran parte della popolazione.

Tra la fine del 1942 e i primi mesi del 1943 la disgregazione del «fronte interno» stava compiendo il suo ultimo «giro di boa», come attestarono gli scioperi del marzo ´43 nel «triangolo industriale», che segnalarono lo scollamento delle masse popolari dal fascismo. Il 5 marzo di quell’anno, che si configurò come un vero e proprio spartiacque nelle vicende belliche su scala mondiale, mentre decine di migliaia di ateniesi manifestavano contro il lavoro forzato imposto dai nazisti e cadevano a centinaia sotto i colpi dei panzer tedeschi, prendeva il via a Torino un’ondata di scioperi per il pane, la pace e la libertà, che per più di dieci giorni paralizzò le maggiori fabbriche delle più importanti città del Nord. Pur traendo origine da motivazioni economiche, essa rappresentava un clamoroso atto di insubordinazione verso il fascismo e la sua guerra. Si trattava della prima, riuscita, protesta operaia di massa nell’Europa nazifascista.

Qualche mese più tardi, a giugno, anche il Napoletano fu scosso da agitazioni operaie, mentre già da un po’ il mondo rurale lanciava segnali crescenti di inquietudine e insofferenza: era nelle campagne che si avvertiva in modo ogni giorno più chiaro quella paralisi del regime che sarebbe sfociata nel crollo verticale del 25 luglio. Con il manifestarsi di una disaffezione collettiva, prendeva corpo lo sfaldamento delle basi di massa della dittatura. Fu in quel frangente che i ceti dominanti decisero di sganciarsi dal regime, separando il proprio destino da quello del Duce.

Sia pure tra esitazioni e incertezze, Corona, Vaticano e mondo degli affari addivennero al divorzio da Benito Mussolini, da colui che per un lungo periodo era stato il loro inamovibile referente. La soluzione messa in atto con la «congiura di palazzo» del 25 luglio fu la defenestrazione dell’«Uomo della Provvidenza». Sacrificando Mussolini, si tentò di salvare l’impalcatura autoritaria dello Stato e di proteggere gli interessi e i privilegi primari degli strati alti della società italiana.

La modalità con cui il Duce venne estromesso dalle stanze del potere politico metteva a nudo – come ha sottolineato il dirigente di primo piano del Pci, Giorgio Amendola – le difficoltà e i limiti dell’antifascismo storico, non in grado di assestare, dopo l’insorgenza operaia, la spallata finale al fascismo barcollante, decapitato invece dalla trama ordita dal re, dagli alti gradi dell’esercito e da una parte dei gerarchi del regime per preservare l’architrave su cui per vent’anni si era retto il «compromesso autoritario» con gli ambienti economicamente dominanti, in preda ora alla «grande paura» per il possibile ridestarsi dello spettro della sovversione e della rottura degli assetti sociali.

La caduta del fascismo e del suo leader, che venne arrestato lo stesso 25 luglio ’43, dopo un breve colloquio con Vittorio Emanuele III, avvenne senza suscitare la benché minima reazione da parte della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e del Partito Nazionale Fascista, che pur contava quattro milioni di iscritti. Fu festeggiata, invece, da tantissimi italiani, la cui esultanza mal celava la speranza che l’Italia si tirasse fuori dal conflitto. Purtroppo, la guerra “ufficialmente” sarebbe continuata. Con tutti i suoi orrori, con la riduzione della penisola a teatro di un terribile conflitto totale.

Lo chiarì subito il nuovo capo del governo, il maresciallo Pietro Badoglio, generale fedele alla monarchia ma profondamente compromesso con il fascismo. Pronto ad usare la mano pesante nei riguardi delle manifestazioni antifasciste e popolari (oltre 90 le vittime dei «quarantacinque giorni» badogliani), annunciò la sera dell’8 settembre l’armistizio con gli Alleati. Iniziò allora il mese più difficile del Novecento italiano, segnato dalla fuga ignominiosa del re e di Badoglio, dalla liquefazione dell’esercito e dello Stato, dall’occupazione tedesca, ma anche dal congiungersi del dissenso esplicito al fascismo con quello carsico, inabissatosi durante il Ventennio, e con quello dolorosamente maturato nel corso della guerra.


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