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Agota Kristof

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PRIMA di considerare la scrittura autobiografica un passo indietro rispetto alla letteratura d’invenzione, considerate lei. Prima. Poi, dopo averla letta, se ancora considerate l’autobiografia una forma letteraria minore rassegnatevi a farlo voi un passo indietro. Perché non è sempre così.

Ad esempio, Agota Kristof ha scritto di sé e l’ha fatto tenendo bene a mente un mantra che lei stessa ha messo in circolo: “Un libro per triste che sia non può essere triste come una vita”. In questo modo ha deviato il lettore verso una direzione ben precisa: se stai pensando che quella che racconto è la mia vita, pensaci più attentamente perché in realtà è la tua. Già, non si spiega molto diversamente la passione divorante che lettori, anche molto diversi tra loro, hanno per questa scrittrice straordinaria di origini ungheresi e poi naturalizzata svizzera. La Kristof è nata nel 1935 in un villaggio ungherese, molto piccolo e senza elettricità. Da ragazzina legge e scrive voracemente, spesso viene punita per le sue “bugie” che poi sono le sue storie.

Dopo un’infanzia dura a causa della persecuzione nazista, quando viene mandata in un collegio all’età di 14 anni, il dolore di quella prima separazione “diventa insopportabile” e la scrittura diventa il suo unico rifugio. “Piango la perdita dei miei fratelli, dei miei genitori, della casa di famiglia, piango soprattutto la mia libertà perduta”. È grazie a questa prima perdita di sé che comincia a comporre poesie. “La voglia di scrivere verrà più tardi, quando si sarà rotto il filo d’argento dell’infanzia, quando verranno giorni cattivi, e arriveranno gli anni che potrei definire non amati”.

Molti anni dopo, le più belle faranno parte di “Chiodi” la silloge pubblicata in italiano solo nel 2018 dalla casa editrice Casagrande, in cui l’autrice dà voce alle visioni più marcate della sua ricerca personale quali la perdita ancestrale del nido che per lei è rappresentato dal linguaggio. “Essere un rifugiato è come attraversare un deserto”. Senza nido e con troppe lingue sulla bocca (ungherese, svizzero e francese), nel 1956 si ritrova esule in Svizzera. Fugge dall’Ungheria invasa dalle truppe sovietiche, a soli 21 anni, a piedi, con il marito politicamente minacciato, e il loro bambino.

Avrebbe voluto vivere in Austria o negli Stati Uniti. Ma il destino decide diversamente e si trasferisce a Neuchâtel, impara il francese, convive con il suo lavoro inquietante e magnifico. “Io non volevo lasciare il mio paese. Lo rimprovero sempre al mio ex marito: era lui che aveva paura dopo i fatti del ’56, io non avevo nulla da temere, lavoravo in fabbrica e amavo scrivere. All’inizio non capivo cosa c’entravano per me la Svizzera, la lingua francese. È stata una separazione difficile, soprattutto quella della mia lingua, ma non potevo continuare, come hanno fatto alcuni altri scrittori dell’Est a scrivere in una lingua che non parlavo più quotidianamente. Non avrei avuto neppure lettori. E così scrivere in francese è stata una necessità oltre che una sfida. Mi dicevo: come può accadere questo, io che sto scrivendo in una lingua che non è la mia. Era un po’ un miracolo”.

Come i personaggi delle sue opere, romanzi e testi teatrali, la voce della Kristof è la voce di un’esule. Cosa manca a un essere umano per sentirsi parte di un’identità collettiva? Questo chiede l’autrice ai suoi personaggi e di riflesso ai lettori. La risposta per fortuna non ce la dà. La dobbiamo trovare noi, non la conoscono nemmeno le sue creature letterarie. I primi anni in Svizzera la Kristof non parla né francese né tedesco. Nessuno la capisce. Operaia in una fabbrica di orologi, alla catena di montaggio, tre turni al giorno, combatte la routine meccanica e l’insonorizzazione del non parlare la lingua, generando storie che uscivano dalla parte più morbida del cervello come cerchi concentrici mentali.

Dopo cinque anni divorzia dal marito, riprende le sue poesie adolescenziali e inizia a tradurle lentamente in francese all’alba, fino a quando non usa così bene la lingua per permettersi di scrivere solo in francese. “Ho considerato la letteratura come qualcosa di personale, non ho mai cercato di arrivare da nessuna parte. Ho scritto per me quando i bambini erano andati a letto e non c’era più rumore in casa”. La bellezza della vita vera narrata è tutta qui.

Non sapremo mai chi siamo fino in fondo, anche se proviamo a raccontarci. Non conosceremo mai veramente chi ci ha creato, figuriamoci noi stessi. Il linguaggio scarno e denso, dritto alla meta delle sue storie assomiglia al suo volto. Un volto scarno, uno sguardo in procinto di dire sempre qualcosa di profondo per poi scegliere di tacere. La sua opera più letta, la “Trilogia”, in realtà non è mai stata concepita come un corpo a tre, almeno stando alle dichiarazioni della stessa autrice.

Ma c’è da fidarsi delle sue parole? Fortunatamente, no. Mai fidarsi di una scrittrice, tanto più se racconta se stessa. Una voce lapidaria quella della Kristof che non solo non ama gli orpelli ma non li ammette. Del resto anche il suo aspetto è quello di un essere umano quasi divino, una sorta di messaggera austera con i capelli dritti e i vestiti monocolore dai tagli rigidi.

Quando le chiedevano notizie sulla sua scrittura, così schietta e fredda eppure divorante, lei rispondeva “io scrivo così, è questo il mio modo di scrivere”. Chiudendola con l’eleganza di chi non ha niente da insegnare e per questo insegna molto.

Molte sono le emuli di questa penna chiodata, poche le scrittrici che riescono a sfiorare la sua limpidezza. Una di queste è Rosetta Loy che è riuscita a darne una definizione essenziale eppure pertinente, complice probabilmente la comune natura dei temi di entrambe. Secondo la Loy, nobile penna poco considerata purtroppo oggi, la scrittura della Kristof “non lascia spazio alle divagazioni”. C’è da ricordarselo ogni volta che si pensa che scrivere di sé sia un torto alla nobile arte della Lettere Sacre. La radicalità che la Kristof assume attraverso il linguaggio rende vacua ogni polemica sulla faciloneria dell’autobiografismo. Scrivere di sé è un’etica per la Kristof, come lei stessa mette in bocca a Claus nel primo volume della Trilogia: “Sono convinto, Lucas, che ogni essere umano è nato per scrivere un libro, e per nient’altro. Un libro geniale o un libro mediocre, non importa, ma colui che non scriverà niente è un essere perduto, non ha fatto altro che passare sulla terra senza lasciare traccia“.

Tutte le sue opere sono un’ode alla parola, alla lingua, alla magia del linguaggio che diventa storia. Morta nel 2011, lontana dai clamori, grande nella sua umiltà, verso la fine della vita dice di sé: “Non riesco più a leggere i miei libri, perché mi fanno davvero male, o forse è perché assomiglio troppo alla mia scrittura secca, negativa, senza speranza.”


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