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Il presidente della Repubblica Mattarella ha appena terminato il suo intervento alla Festa dei Lavoratori

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IL LAVORO. Quello che non c’è. Il lavoro del presente, il lavoro del  futuro e il lavoro  mangiato dal cambio di usi e costumi o dalla  tecnologia che muove gli occupati come pedine sullo scacchiere  del mercato.  Cambia il mondo e cambiano i lavori. E cambia anche il modo di concepire il lavoro. Quel che non è mai cambiata è la  matrice lessicale. Il termine deriva  dal latino labor che vuol  dire fatica, pena, sforzo, sofferenza. Anche il francese travail, lo spagnolo trabajo , il tedesco arbeit e l’inglese labour riconducono allo stesso significato.  

“Il Signore disse ad Adamo: «Mangerai il pane col sudore del tuo  volto»”, (Genesi 3:19) ricordano le Sacre Scritture. La fatica di un lavoro umile non risparmia neanche San Giuseppe che non è solamente il patrono dei papà – ricordato  il 19 marzo – ma anche di  falegnami, ebanisti e carpentieri e per questo festeggiato in campo  liturgico e sociale anche il 1° maggio.    

Fu Pio XII nel 1955 a volerlo ricordare come patrono di artigiani e operai nel giorno della festa dei lavoratori. Ma il lavoro  è anche una “merce” di scambio. Non una merce  qualsiasi certamente, comunque un dare e avere che a sua volta muta a seconda dei tempi, delle regole contrattuali, dei beni e dei servizi oggetto della produzione e non solo.

Il lavoro, i lavori fotografano la società nel tempo e nei luoghi in  cui vengono svolti.  Rappresentano un modo di osservare le diverse società, i loro mutamenti e le evoluzioni: sia quelle in avanti, che quelle in direzioni opposte. Sono veri e propri indicatori sociali,  forniscono  le chiavi di volta per aprire finestre  sulle trasformazioni sociali e di costume.  Il cambiamento del mondo passa (anche)  attraverso le metamorfosi delle figure che abitano l’universo lavorativo.  Il contadino della società agricola con le mani callose e tante bocche da sfamare che trascina l’aratro  diventa l’operaio della prima e della seconda  rivoluzione industriale. Le bocche da sfamare sono sempre tante e il più delle volte  la paga risicata e le condizioni di lavoro  pessime in quelle   prime fabbriche quando non nelle miniere.  

Muta il mondo, muta il lavoro e l’operaio diventa a sua volta l’iper specializzato nel tempo del digitale  in grado di garantire prestazioni professionali anche a distanza, interfacciadosi da remoto con le macchine attraverso l’uso dei propri dispositivi. Dai campi alle   fabbriche passa il primo spartiacque che cambia per sempre la Storia  dell’umanità.  Il secondo arriva con quella che  a partire dai primi  anni Settanta del ‘900, alcuni indicano  come la Terza rivoluzione  industriale dettata dall’evoluzione accelerata dei linguaggi dell’informatica,  dell’elettronica e delle telecomunicazioni. E via via,  col tempo anche l’operaio che va in fabbrica in  tuta blu e l’impiegato che  va in ufficio  col colletto bianco  finiranno col far di conto  con l’era digitale. Il mondo reale del lavoro  incontra e si scontra con  una bolla virtuale e automatizzata dove nascono  una miriade di nuove  professioni e ne periscono altre.

Una trasformazione ad alta velocità, resa ancora più radicale dalla pandemia degli ultimi anni che è riuscita persino a scardinare i rituali legati al lavoro come la pausa pranzo, il caffè condiviso di inizio mattina. Per non dire del  resto. Ed è così che l’avvento dell’industria 4.0 (e poi 5 e avanti enumerando) figlia della  quarta rivoluzione industriale  muta  ancor di più funzioni, modi e ruoli lavorativi in un incessante processo di rincorsa della crescita economica. Il lavoro 4.0   fa il paio con  nuovi modelli e soprattutto con una sorta di gara con  i sofisticati marchingegni  digitali.  

Nell’era del lavoro  frutto delle trasformazioni tecnologiche e digitali     ci potrebbe toccare di festeggiare il primo maggio in piazza sì, ma insieme ai robot. Del resto, dai dati raccolti dal World Economic Forum e rilasciati nel report The Future of the Jobs, già qualche  tempo  fa si  prevedeva   entro il 2022 un 42% di lavoro   gestito dalle macchine e un 58% dagli uomini.  Previsioni a parte, la tendenza sembra essere destinata a crescere ulteriormente e a portare con sé nuovi modelli di lavoro. In questo scenario in continua evoluzione più di un interrogativo lo pone un fenomeno  ancora tutto da indagare: le dimissioni volontarie.

La grande fuga dal lavoro in alcuni casi è un salto nel vuoto. Si lascia il lavoro anche quando non ci sono alternative. Cambiare lavoro, cambiare vita, darci un taglio e ricominciare sono scelte ardite se solo si guarda a qualche decennio fa e alla rincorsa del posto fisso e rassicurante. Forse che fluttuando nella precarietà di un mercato del lavoro instabile ci si è abituati al rischio di mettere tutto in discussione con cadenza ciclica? E quanto davvero  ha inciso la “lezione” della pandemia nello spingere alla fuga dal lavoro? Dimettersi volontariamente si aggiunge alle categorie dei senza lavoro o in cerca di un nuovo lavoro, ma questa volta  per scelta.  A farlo sono giovani e meno giovani, istruiti e meno istruiti con titoli di studio diversificati. Ma perché? Cos’è che ha fatto invertire la rotta? C’entra forse quel concetto di felicità di cui esiste persino  un vero e proprio indice di misura e il desiderio di trovare formule lavorative che meglio si conciliano con la qualità della vita?

Ancora una volta il lavoro e il modo di concepirlo diventano indicatori sociali che svelano  cambiamenti epocali. Radar che intercettano i mutamenti che accompagnano la vita degli uomini nelle sue diverse declinazioni. Vale anche per il lavoro come strumento per battere  strade che portano all’indipendenza e alla realizzazione di se stessi.  

Lo sanno bene le donne  che da sempre  per il lavoro hanno combattuto battaglie, modificato le loro esistenze, conciliato ritmi con famiglia e figli, rivendicato diritti e ruoli. E cosa vorrà dire la parola lavoro negli anni a venire, al netto di quel “fardello” etimologico  che si porta dietro nel suo stesso nome, ovvero:  fatica?  «E quando dico  lavoro non penso ad una  fatica, ad un  supplizio  che uno deve  sopportare  dalla mattina alla sera per rendersi indipendente dal punto di  vista economico, ma ad una  opportunità  che Dio ci ha offerto per dare più  senso  alla nostra  esistenza. Ricordatevi quello che vi dico: una cosa è fare’ il tabaccaio, e una cosa è  essere tabaccaio», diceva Luciano De Crescenzo.

Allora forse la sfida  è sempre quella: trovare un equilibrio tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, tra ciò che si ha e ciò che si vorrebbe avere.  Perché è vero che il lavoro è sudore – vale anche per i lavori intellettuali e creativi:  anche questi non esenti dalla fatica, anzi – ma a date condizioni  è anche  gioia soprattutto quando si ha la fortuna (e la possibilità) di fare il lavoro che si è scelto di fare e quando nel farlo si raggiungono gli obiettivi prefissati.

Gioia, appunto. “Il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva, non giovi a un nobile scopo”, (Adriano Olivetti).


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