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Luciano Lama

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L’occupazione che variabile è, oggi? Vien da chieder(se)lo quando, a proposito della controversa misura del blocco dei licenziamenti nella fuoriuscita dalla pandemia, si evoca l’intervista del gennaio 1978 in cui Luciano Lama anticipava a Eugenio Scalfari la “svolta” da sottoporre alla assemblea sindacale dell’Eur.

Fatta la tara al sensazionalismo del titolo, “Lavoratori stringete la cinghia”, i contenuti appaiano, in effetti, clamorosi ma non privi di problematicità, rispetto a letture già allora manichee.

A volerne ancora discuterne, si dovrebbe farlo con l’onestà intellettuale che Lama per primo mostrò nell’occasione. Si mandava in soffitta il salario come “variabile indipendente” ma in contrapposizione all’analoga concezione del profitto, essendo, “in un’economia aperta”, le variabili “tutte dipendenti una dall’altra”.

Ancora, il riconoscimento di non poter “più obbligare le aziende a trattenere alle loro dipendenze un numero di lavoratori che esorbita le loro possibilità produttive, né possiamo continuare a pretendere che la cassa integrazione assista in via permanente i lavoratori eccedenti”, si misurava con l’”interesse generale a non rendere drammatiche, esplosive, certe situazioni sociali”, quindi si doveva puntare a una accumulazione del capitale “opportunamente programmata dallo Stato e indirizzata al fine di accrescere il più possibile l’occupazione”.

Non erano mere concessioni, chiariva da subito Lama, bensì l’assunzione di un “ruolo” attivo del sindacato nel “raddrizzare la barca Italia”.

La barca Italia è andata avanti e indietro, e quando si va “per diritto e per rovescio” si rischia di non comprendere quale direzione sia stata effettivamente controcorrente. Ma se un senso ha ripensare alla “lezione” di Luciano Lama, nel venticinquesimo della scomparsa (a Roma il 31 maggio 1996), che corrisponde al centenario della nascita (a Gambettola, in quel di Forlì, il 14 ottobre 1921), più che nella riproposizione di opzioni irrisolte, va ricercato nel viluppo delle emergenze che gravano sul paese senza riuscire a rimettere in campo lo stesso obiettivo di crescita, sviluppo e occupazione, l’analoga etica della (cor)responsabilità, un corrispondente respiro riformatore.

Lama è stato uomo del suo tempo. Che non era il piccolo mondo antico. “Riformatore unitario”, si era definito: “Nel senso pieno del termine – unità dei lavoratori, unità delle forze politiche che si riconoscono nella causa di emancipazione del mondo del lavoro”. Come “riformista rivoluzionario”, fu ritratto da Walter Tobagi. Gianni Agnelli conobbe un “animale addestrato al combattimento” quando nel 1975 negoziarono il punto unico di contingenza. Combattendo da riformista,

Lama ha attraversato il secolo che lo storico Eric Hobsbawm ha definito “breve” per l’incalzare di eventi laceranti: dalla lotta partigiana al nazifascismo, che gli aveva assassinato il fratello, alla ricostruzione democratica; dalle divisioni della sinistra politica (aveva inizialmente militato nel Psi per poi ritrovare più coerenza nel partito nuovo di Togliatti) alla mancata unità dopo il crollo del socialismo reale; dal ripudio dell’estremismo violento (subìto in prima persona per aver cercato di far valere l’agibilità democratica nell’Università di Roma) alla fermezza contro un terrorismo scatenato contro il compimento del percorso costituzionale della “Repubblica fondata sul lavoro”.

E come uomo del Novecento, Lama si era fatto carico del fardello della questione sociale là dove, la Cgil preservata da Giuseppe Di Vittorio come casa comune della sinistra, ha potuto esprimere il suo impegno per il progresso. “Era il ‘poulain’, il puledro di Di Vittorio”, disse una volta Giorgio Napolitano. Si comprende perché Lama concepisse la strategia dell’Eur alla stregua di un tributo al “piano del lavoro” che Di Vittorio aveva lanciato, dopo il fatidico 18 aprile del 1948, per non lasciare rovinare la rottura politica dell’unità nazionale anche sul sindacato.

Già allora Di Vittorio non aveva esitato a parlare di “sacrifici” agli occupati del Nord perché fossero “artefici di un grande movimento di solidarietà verso le masse diseredate del Sud”. E per quel piano si attirò accuse di “collaborazionismo con il sistema”. Eppure, per Lama, proprio quella esperienza “fu determinante per l’iniziativa sociale e politica” che potè svilupparsi nei decenni successivi, fino a determinare l’allargamento dei diritti e dello stesso potere di intervento del sindacato come autonomo soggetto politico. Si può dire altrettanto per la strategia dell’Eur?

Si trattava, a quel punto, di non lasciare regredire l’appena ritrovata (e ancor fragile) unità sindacale in uno sterile rivendicazionismo, se non in un corporativismo subalterno, di fronte all’acutizzarsi delle crisi petrolifere che a metà degli anni Settanta fece precipitare il paese nella stagflazione.

La svolta dell’Eur non si illudeva che lo “spontaneo riadattamento del sistema” conducesse al superamento della crisi, ma metteva in campo una strategia basata su un programma di riforme che “affrontasse globalmente i problemi del paese”.

Per Lama “era una sfida a noi stessi”, “una grande incompiuta”. Certo, pesarono le incomprensioni, le resistenze, le rincorse, le divaricazioni che poi il sindacato ha pagato a caro prezzo e ancora fatica a recuperare. Ma “il colpo decisivo l’Eur l’ebbe con il venir meno del suo supporto politico”.

L’acutezza della crisi aveva indotto il Pci di Enrico Berlinguer a concedere prima l’astensione e poi l’appoggio esterno ai governi di solidarietà nazionale che Aldo Moro aveva voluto fossero guidati da Giulio Andreotti nella convinzione di poter condurre (se la sua vita non fosse stata martoriata dalle Brigate rosse) l’intera Dc a una nuova fase della democrazia italiana. Con quella prospettiva politica (parallela al compromesso storico berlingueriano) cadeva anche “la tensione morale e riformatrice che aveva inizialmente animato la solidarietà nazionale”.

È storia. E potrebbe offrire un’altra misura di raffronto con l’emergenza di questi angusti tempi, ovvero con l’altra incompiuta, politica e istituzionale, con cui pure Lama continuò a misurarsi.

Una volta lasciata la Cgil, nell’86, segnato dall’ultimo trauma del referendum sulla scala mobile, il Pci gli affidò la responsabilità del programma che in una qualche misura contribuì a spianare la strada alla “svolta” dell’89. Eletto senatore (e vicepresidente a palazzo Madama) gli toccò stroncare il provvedimento sul riassetto radiotelevisivo pubblico e privato a cui sempre Andreotti nel 1990 affidava la sopravvivenza di un suo ennesimo governo (pentapartito) definito senza strategia e senza princìpi dove è “il potere” a essere posto “al di sopra di tutto, e strumento supremo nel governo degli uomini”. A un certo punto,

Lama si rivolse direttamente ai compagni del Psi per richiamarli alla coerenza “progressista e riformista”: “Il riformismo autentico – scandì – ha sempre considerato il potere come un mezzo, non come un fine in sé! Un mezzo per cambiare una società ingiusta, per difendere specie i più deboli, per aiutarli a emanciparsi, per farli contare nella società”.

E se fosse questo il vero lascito del riformista mai rassegnato?


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