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Il ministro della Giustizia Carlo Nordio

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NON E’ facile spiegare in Europa e nei Paesi “normali” perché, da noi, il Parlamento abbia compiuto, in Commissione, il primo passo per abrogare il reato di abuso d’ufficio. Per un osservatore estraneo alle vicende di mala-giustizia l’articolo 323 del codice penale si riferisce a fattispecie di comportamenti illeciti con precise tipizzazioni che vanno giustamente puniti, perché un pubblico ufficiale non deve esercitare il potere che deriva dal suo ruolo per favorire o danneggiare qualcuno sul piano economico.

Perché, allora, la maggioranza (con il contributo di un pezzo di opposizione) vuole abolire l’articolo novellato più volte nel corso del tempo al fine di chiarire meglio la sua applicabilità? È facile dire che si vuole porre la politica al di sopra della legge (la storia dei reati dei “colletti bianchi” e rendere non punibili dei malfattori che si sono infiltrati nelle istituzioni. In verità, la procedura presenta tratti di singolarità: il motivo vero per cui si abroga un reato (che di per sé non è paragonabile al delitto d’onore o al ratto per scopo di matrimonio o ad altre nefandezze ereditate dal Codice Rocco del 1933) è quello di impedire che ne abusino le procure.

L’ANOMALIA ITALIANA

Il bello è che sia gli abolizionisti, sia i “difensori della fede” si avvalgono dello stesso argomento, ovvero che più del 90% delle indagini o dei processi per il reato di abuso d’ufficio finiscono in un’archiviazione o in un’assoluzione. Queste statistiche sono la vera dimostrazione dell’abuso da parte della magistratura inquirente. Chi invece se ne avvale per negare l’esistenza del problema è in malafede, visto che in Italia è sufficiente l’apertura di un’inchiesta e l’invio di un avviso di garanzia per scatenare la gogna mediatica e mettere in piazza il malcapitato, a cui non serve essere assolto con formula piena dopo 10 anni e tre gradi di processo (poiché i pm insistono a ricorrere in appello anche in caso di assoluzione nei gradi precedenti).

A sollevare la questione dall’articolo 323 del codice penale sono stati i sindaci e, in generale, gli amministratori, senza distinzioni politiche (la richiesta viene dall’Anci), perché avvertono di essere in balia di una lettera anonima che – con la scusa dell’obbligatorietà dell’azione penale – consente a un sostituto procuratore di andare alla ricerca di un momento di gloria nella mortificazione della politica. Va riconosciuto che la scelta dell’abrogazione è tranchant, ma non esistono alternative, perché non si possono abolire i magistrati inquirenti che non rispondono di nulla a nessuno. In un’intervista, Alessandro Barbano – giornalista coraggioso che con i suoi saggi ha svelato di «che lacrime grondi e di che sangue» la giustizia penale in Italia, purtroppo continuando a sbattere la testa contro un muro di gomma – ha commentato con queste parole i tentativi di governo e Parlamento di limitare i danni dell’anomalia del diritto penale totale: «Sì all’eliminazione dell’abuso d’ufficio, sì anche al contenimento della diffusione delle intercettazioni. Però dobbiamo intervenire sulle macro questioni che stanno a monte. Per fare in modo che, citando Filippo Sgubbi, il diritto penale non sia più totale. Totalizzante, cioè, nella vita delle persone». In sostanza, secondo Barbano si tratta di rattoppi che aiutano, ma non risolvono il problema, anche perché non è ragionevole abolire i reati quando a sbagliare sono i giudici. E non si tratta solo di difendere i potenti, le persone che hanno un ruolo pubblico. A parte l’abuso d’ufficio – che non viene di solito imputato ai quidam de populo – emergono sempre più spesso casi di uomini e donne che hanno scontato o stanno scontando anni di galera a seguito di processi (arrivati persino in Cassazione) conclusi con condanne ingiuste.

LA DENUNCIA DI CASSESE

Vogliamo allargare il discorso chiamando in causa una personalità al di sopra di ogni possibile sospetto? Secondo il giudice costituzionale emerito Sabino Cassese, i pm non si limitano a costruire l’accusa, ma giudicano prima del processo. «Basti pensare – sottolinea Cassese – alle conferenze stampa in cui si vedono procuratori circondati da forze dell’ordine, che annunciano, con titoli altisonanti, le accuse. In inglese questo processo si chiama naming and shaming, cioè nominare e svergognare. Vi collaborano le procure perché non rispettano il principio fissato dalla Costituzione nell’articolo 111, per il quale la persona accusata è informata “riservatamente” della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico».

«La stessa classe politica – aggiunge il giurista – ha, da un lato, abbassato tutte le regole di immunità che spettavano agli amministratori pubblici, dall’altro creato complessi normativi (per esempio, l’antimafia) affidandone la cura a una magistratura divenuta il guardiano della virtù». È vero, la classe politica italiana soffre della sindrome di Stoccolma; si sottomette ai suoi carnefici; si avvale del ricorrente abuso di potere delle procure come un’arma da esibire e utilizzare contro gli avversari. E, ovviamente, la parte che si è avvantaggiata della discesa in campo della magistratura inquirente ne è ricattabile.

Come, altrimenti, si potrebbe spiegare il voto del Pd (erede di quelle forze politiche che furono risparmiate da Tangentopoli) sull’abuso di ufficio che ha sconfessato le richieste degli stessi sindaci dem? È bene che la politica smetta di umiliarsi e rivendichi il ruolo che le affida la Costituzione. L’abuso d’ufficio e la revisione del traffico di influenze sono “reati civetta” che consentono alle procure di andare a cercare reati più eclatanti. Come scrive Sgubbi, reato e colpa sono uno status che precede la commissione di un fatto. Assomiglia, per gli “impuri”, al peccato originale. Per gli impuri “la salvezza penale è ardua” poiché devono vincere la presunzione di colpevolezza e superare l’inversione dell’onere della prova.


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