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Ursula von der Leyen

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«IL PALLONE è rotondo», si dice, per indicare che i pronostici della vigilia possono essere sempre smentiti. E questo vale sia per il calcio che per le elezioni. Ma, nell’attesa dei risultati, come ci guarda l’Europa? E, soprattutto, quali correnti profonde dell’economia europea vanno a disegnare le sfide che attendono il nuovo governo? Vediamo la prima domanda. L’Europa ci guarda con un misto di rassegnazione (gli italiani son tornati ai soliti intrighi…), di timore (la vittoria degli euroscettici può squassare l’euro, che già sta male per conto suo…) e di ottimistico cinismo (alla fine gli italiani tirano sempre fuori qualche coniglio dal cappello).

I SOLITI ITALIANI…

Sul primo punto hanno ragioni da vendere. È vero, l’Italia è da sempre un laboratorio politico-sociale, nel quale, “provando e riprovando” (motto dell’Accademia del Cimento) si sperimentano nuove e ardite formule. Senza grande successo, bisogna dire. Ma questa volta gli apprendisti stregoni sono andati al di là del bene e del male. Mario Draghi è stato appena nominato in America “Lo statista dell’anno”, ricevendo le congratulazioni di Biden e Kissinger. Peccato che gli apprendisti lo avessero appena licenziato, guardando ai sondaggi e infischiandosene del bene di quella patria che Draghi stava rimettendo sulla retta via.

Sul secondo punto, i timori sono giustificati. C’è un filo rosso di euroscetticismo che serpeggia in quella coalizione di centro-destra che potrebbe vincere le elezioni (pallone rotondo permettendo…). Anche se tutti si affannano a esibire europeismo (con qualche se e qualche ma…), le esternazioni passate, ora messe in sordina, fanno sorgere qualche dubbio sulla sincerità della conversione.

Qual è il vero pensiero della Meloni? Come scrive Paolo Mazzanti (sul sito “InPiù”): «È quella che a 19 anni diceva in tv che Mussolini era il miglior politico del Novecento, o quella che cerca di rinchiudere il fascismo nell’archivio della storia? È quella che fino al 2021 sosteneva che l’euro era un danno per l’Italia e andava smantellato, o quella che oggi si proclama europeista e atlantista, anche se poi vota contro la relazione anti-Orban all’Europarlamento e continua a sostenere la prevalenza delle leggi nazionali sulle europee? È quella che a giugno ha partecipato al comizio di Vox del suo amico neofranchista Abascal a Marbella scagliandosi contro “le lobby Lgbt, gli immigrati, la grande finanza internazionale e i burocrati di Bruxelles”, o quella che oggi prende le distanze dallo scostamento di bilancio invocato da Salvini per non allarmare la Ue e gli investitori? È quella che oggi chiede di estrarre più gas nazionale o quella che all’epoca del governo Renzi sosteneva il referendum contro le trivelle?».

I DUBBI SULLA MELONI 2.0

In Inghilterra abbiamo un Primo ministro donna, Liz Truss, che vorrebbe rinverdire l’immagine della Thatcher, la “dama di ferro” (Iron Lady), ma molti, ricordando i numerosi cambiamenti di casacca e di opinione, l’hanno ribattezzata Iron Weathercock (“banderuola di ferro”). Si meriterebbe lo stesso appellativo la Meloni? Talvolta, cambiare opinione può rappresentare una sincera conversione, ma è legittimo, per l’Europa, preoccuparsi della Meloni 2.0. Molti hanno criticato la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, per aver detto che la Ue «ha gli strumenti» per intervenire se le cose in Italia si facessero «difficili».

Queste parole sono state perfino interpretate, in questa accesa atmosfera pre-elettorale, nel senso che la Ue potrebbe non dare fondi all’Italia se vincessero le posizioni euroscettiche e filo-Putin. Ammesso che sarebbe stato meglio se von der Leyen non avesse detto niente, le sue parole si riferivano probabilmente al Tpi, il Trasmission Protection Instrument (da qualcuno ribattezzato Tpi = To Protect Italy), lo strumento che la Bce ha pronto in caso di attacchi ai Btp. Da questo punto di vista l’esternazione di Ursula intendeva rassicurare quanti temono che, votando per il centro-destra, si potrebbe provocare una crisi finanziaria.

LE SFIDE ECONOMICHE

E veniamo alla seconda domanda: quali correnti profonde dell’economia europea vanno a disegnare le sfide che attendono il nuovo governo? Cominciamo col dire che l’economia europea è in affanno («la lena m’era del polmon sì munta…», come dice il Poeta). L’andamento dell’indice Pmi composito dell’Eurozona (che mette insieme industria e servizi), l’indice più sensibile della congiuntura europea, mostra una chiara e preoccupante tendenza discendente a partire dall’invasione dell’Ucraina. E le ragioni non sono difficili da trovare. Un’inflazione che erode il potere d’acquisto (i salari non tengono il passo), una guerra nel cuore dell’Europa (condita dalla minaccia nucleare del traballante megalomane nel Cremlino), una prospettiva di razionamenti del gas con l’inverno che si avvicina… Ce n’è abbastanza per ferire la fiducia e rinviare le spese di investimento e di consumi di beni durevoli.

La Germania è già in recessione, e il resto d’Europa seguirà. Insomma, chi vince le elezioni dovrà subito misurarsi con quello che gli psicologhi chiamano “il principio di realtà”. E tutto questo proprio quando la politica monetaria, lungi dal soccorrere quell’economia la cui lena è “munta”, va nella direzione opposta. Non solo nel Vecchio continente, ma dappertutto i tassi di interesse salgono come un sol uomo. Anche se è vero che salgono da un livello anormalmente basso, anche se è vero che i tassi reali (“grazie” all’inflazione) continuano a essere negativi, è anche vero che chi ha fatto un mutuo a tasso variabile si trova oggi a pagare parecchio di più, il che non aiuta certo la voglia di spendere. In ogni caso, la corale risalita dei tassi penalizza l’Italia: aumenta lo spread, sia rispetto alla Germania che rispetto alla Spagna, dato che i tassi più alti sono specialmente deleteri per i Paesi maggiormente indebitati. Ecco qui un altro “principio di realtà” con il quale si dovrà misurare l’Esecutivo che uscirà dalle urne. Se la recessione incombe e la politica monetaria non può aiutare, la palla è nel campo della politica di bilancio.

Il problema riguarda tutta l’Europa e la risposta deve essere europea, con un altro Next Generation Eu che valga a supportare l’economia. Qui ci vorrebbe un governo forte e credibile che sappia negoziare con autorità in Europa (questo governo ce l’avevamo…).

IL COORDINAMENTO CON LA UE SULL’ENERGIA

E veniamo ai cambi. La debolezza dell’euro è il contraltare di una forza generalizzata del dollaro). Anche qui, le ragioni non sono difficili da trovare: l’impennata del biglietto verde, data dall’invasione dell’Ucraina, e la prima ragione, quindi, è nel ruolo di bene rifugio che acquista il dollaro quando risuonano i tamburi di guerra. La seconda ragione sta nel fatto che i tassi in America sono aumentati prima e più che in Europa, e la Federal Reserve appare determinata a proseguire in questi rialzi, dal che risulta un differenziale – nel livello dei rendimenti – in crescita, sia rispetto all’Europa che rispetto alla Cina. La terza ragione sta in un altro differenziale, che riguarda la crescita. Anche se la recessione incombe, sia in America che in Europa, la prima è messa “meno peggio” rispetto alla seconda, e quindi i muscoli dell’economia favoriscono il dollaro.

L’unico punto positivo nella congiuntura sta nel fatto che i prezzi delle materie prime non salgono più, anzi calano, soprattutto per le energetiche. Calerebbero ancora di più se non ci fosse di mezzo il deprezzamento della moneta unica (le materie prime non-oil sono calate nettamente nell’ultimo mese nei prezzi in dollari, ma appaiono stabili, se non in leggero rialzo, nei prezzi in euro…). Certamente, questo riflusso dei prezzi è dovuto alla debolezza dell’economia e anche alla determinazione dell’Europa nel mettere un tetto ai prezzi di petrolio e, sperabilmente, gas. Anche qui, il primo compito del nuovo governo sarà nel coordinarsi con l’Europa per mettere sotto controllo le quotazioni dell’energia.


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