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Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e Giorgia Meloni, presidente del Consiglio

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NON abbiamo dubbi: il pezzo forte di questo esecutivo è proprio lei, Giorgia Meloni. La nuova presidente del consiglio, che ha giurato ieri nelle mani di Mattarella, ha già affrontato (e risolto) alcune grane non da poco. Raccolto il rifiuto a ricoprire l’incarico come ministro dell’economia da parte di alcuni tecnici ipercompetenti, Meloni ha virato su Giancarlo Giorgetti. Tra i politici del centrodestra è il più draghiano di tutti e, nella Lega, sta agli antipodi di Borghi&Bagnai, la premiata ditta di sovranisti antieuropei che Matteo Salvini patrocina da anni. Meloni ha poi resistito all’ultimo ruggito di Silvio Berlusconi sui rapporti con la Russia dell’amico Vladimir Putin: l’atlantismo non è e non sarà mai in discussione. Discorso chiuso. Con il Cavaliere ridotto al silenzio, almeno per ora.

La compagine dei ministri parla chiaro. A differenza dei suoi alleati, e in controtendenza con l’andazzo della legislatura scorsa, raddrizzata soltanto grazie alla provvidenziale epifania di Mario Draghi, Giorgia Meloni vuole scrollarsi di dosso l’immagine di una destra populista, becera e inaffidabile. Per farlo aveva bisogno di puntellare il governo con due pilastri inattaccabili. Da un lato, l’affidabilità totale sul piano delle alleanze internazionali. Dall’altro, la serietà nella gestione dei conti pubblici a garanzia della realizzazione del piano di ripresa e resilienza concordato con l’Europa.

I dicasteri più sensibili sul piano geopolitico e della sicurezza nazionale saranno ricoperti, così, da figure al di sopra di ogni sospetto. Antonio Tajani, già presidente del Parlamento europeo e vicepresidente dell’eurogruppo dei popolari, è il ministro degli Esteri. Guido Crosetto, iperatlantista ed ex Dc, alla guida della Difesa. Anche i dicasteri economici sono messi in salvo: Giorgetti al Mef e l’atlantista (nonché “missino liberale”) Adolfo Urso al commercio estero e allo sviluppo economico non promettono avventure ma solide certezze, come recitava una vecchia pubblicità. Per completare l’opera c’è Raffaele Fitto che, agli Affari europei, dovrà garantire la serena gestione dei fondi del Pnrr, evitando guai con Bruxelles. D’altra parte, la fulminea parabola di Liz Truss nel Regno Unito dimostra che oggi non basta stare dalla parte dell’Ucraina, dell’Europa e della Nato contro la Russia. Serve anche avere i conti in ordine per fronteggiare l’inflazione e la crisi economica. Il piano della ex premier britannica – basato sui tagli alle tasse da 45 miliardi di sterline uniti a una spesa di 60 miliardi per limitare il costo dell’energia elettrica di aziende e famiglie britanniche – ha provocato la reazione violenta dei mercati. La sterlina si è bruscamente svalutata nei confronti del dollaro e i tassi di interesse applicati ai titoli di stato britannici sono esplosi. Alla fine Truss è stata costretta a mollare.

La lezione che viene da Londra è chiara: finanziare i piani di ripresa ricorrendo al debito non è una buona idea. Giorgia Meloni ha fatto propria questa convinzione da tempo. Bisogna ricordare infatti che, durante la campagna elettorale, la neopremier si è distinta nettamente dalle promesse di spesa pubblica facile dei suoi alleati, avvertendo che lo scostamento di bilancio non è la soluzione, ma “un pozzo senza fondo per soldi che regaliamo alla speculazione”. In sostanza, proprio nel momento in cui gli altri promettevano l’impossibile, Meloni chiariva già, in polemica con Salvini, che lo strumento per abbassare il costo delle bollette non è aumentare il debito. La soluzione, semmai, era ed è proprio quel mix di misure che dopo mesi di trattative Mario Draghi ha fatto digerire anche ai partner europei più riottosi.

Resta da verificare quale strategia economica sia alla base di alcuni dei ministeri “ribattezzati”. Per esempio, che cosa significa “Made in Italy” e “Sovranità alimentare”? Se a questi nuovi nomi corrispondesse il revival di un pensiero regressivo, erede di un’Italia rurale immaginaria che resiste al libero commercio internazionale e alla concorrenza, non sarebbe una buona notizia. Il protezionismo, infatti, limita la crescita della produttività. Sarebbe un errore visto che, per esempio, la produttività agricola è costantemente calata di una decina di punti negli ultimi dieci anni. Scopriremo presto se dietro queste formule si nasconde una recrudescenza di politiche protezionistiche. Intanto, fissati i due pilastri principali (politica estera e conti pubblici), il sorriso di Mattarella fa sperare che il nuovo governo sia partito con il piede giusto.


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