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Illustrazione di Roberto Melis

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PIERINO Marchegiano, di Ripa Teatina, provincia di Chieti, e Pasqualina Pintuccio, di San Bartolomeo in Gallo, provincia di Benevento, si conobbero a Brockton, a sud di Boston, nel Massachussets, dove erano stati portati dai genitori, emigranti in cerca di fortuna tra quel milione di italiani che andarono “all’America”, come dicevano, agli inizi del Novecento, specie intorno al 1910.

C’erano un sacco di “stranieri” a Brockton: irlandesi, italiani, lituani, polacchi, svedesi in primis. C’erano anche molte fabbriche di scarpe: Pierino, che era un uomo minuto, lavorava in una di quelle; Pasqualina, Lena per brevità, che era una donna formosa, stava a casa; il papà di lei, Luigi, che in Italia aveva fatto il maniscalco, s’industriava in mille modi. Nel retro della casa che aveva trovato, al numero 80 di Brook Street, nel cuore di quella Little Italy, ancora più piccola di Brooklyn, quella di New York che chiamavano “Broccolino”, aveva messo su una piccola distilleria clandestina.

Pierino si arruolò tra i militari americani che furono mandati a combattere in Francia durante la Grande Guerra. Partecipò alla battaglia delle Argonne, il gas gli entrò nei polmoni ammalandolo per sempre. Pierino tornò, conobbe Lena, s’innamorarono: lui le regalò un anello di fidanzamento con un brillante che brillava come gli occhi neri di lei, si sposarono. Nacque un bambino che morì subito: “Paradiso Santo” pregavano le vicine di casa, vestite di nero. “Non ne avrete più” disse il dottore. La diagnosi era sbagliata: nel 1923 nacque Francesco Rocco e dopo di lui altri cinque bambini, tre femmine e due maschi fra cui Sonny.

Rocco s’ammalò presto: pareva dovesse morire. Lena andò in chiesa: offrì a Sant’Antonio l’anello di fidanzamento purché gli guarisse quel bambino. Che guarì e il santo ebbe l’anello. Crescevano i piccoli Marchegiano; erano andati tutti a vivere al secondo piano di quella casa di Brook Street, dove al primo viveva nonno Luigi. Non c’erano né il bagno né l’acqua corrente né il riscaldamento: d’inverno spalancavano le porte perché entrasse un po’ del calore che facevano le due stufe di nonno Luigi. C’erano due camere da letto: in una dormivano le tre femmine, nell’altra i due genitori con il più piccolo dei figli; Rocco e l’altro fratello s’arrangiavano in una specie di salotto ma più spesso scendevano a dormire al piano di sotto da nonno Luigi.

I dollari erano pochi. A Rocco sarebbe rimasto sempre questo pensiero. Quando divenne ricco e famoso come pugile si faceva sempre pagare le borse in contanti. Li contava, li nascondeva nello sciacquone del bagno in albergo, poi andava a combattere. Quella di nascondere i soldi divenne un’abitudine. Ne guadagnò a milioni (tre, dicono) ma quando morì li aveva nascosti talmente bene che nessuno riuscì ad ereditare trecentomila di quei dollari messi in uno dei tanti conti in banca che aveva aperto però non c’era chi conoscesse l’intestazione di uno. Con una parte di quei dollari Rocco aveva acquistato un anello con un diamante e lo aveva regalato a Pasqualina per sostituire quello offerto a Sant’Antonio.

Ora Rocco si chiamava Rocky, Rocky Marciano, perché Marchegiano era troppo difficile per gli americani. Era un grande pugile, qualcuno dice il più grande di sempre. E infatti concluse la sua carriera imbattuto in 49 incontri, 43 volte mandando kappaò l’avversario, 20 volte prima della terza ripresa. Aveva affrontato campioni come Joe Walcott o Joe Louis difendendo sei volte il titolo mondiale dei massimi. Non era un ballerino del ring, ma aveva un destro micidiale, un colpo che lui aveva ribattezzato teneramente “Suzie-Q”. Quando “Suzie-Q” colpiva l’avversario, questi era spacciato. Una volta, combattendo sotto il nome di Tony Zullo in una di quelle esibizioni fatte per racimolare qualche spicciolo e non essere tacciato di professionismo stava per colpire senza pietà l’avversario, che si faceva chiamare Pete Puller. “Ehi, non farlo, sono io, Sonny, sono tuo fratello” fece il finto Pete e i ragazzi furono scoperti.

Rocky non avrebbe voluto fare il pugile: non aveva il fisico canonico, era alto “appena” un metro e 78 e tarchiato da pesare novanta chili. Gli avversari dei massimi erano un palmo più alti. Sì, ammirava Primo Carnera, l’italiano campione del mondo che una volta era passato da Brockton: “Papà, ho visto Carnera, l’ho toccato!”. “Com’è?”: “Alto che toccherebbe il soffitto ed ha due mani grandi così” fece disegnandone nell’aria due enormi. Da soldato fu mandato in Galles con le truppe americane: mise kappaò un polacco che aveva provocato una rissa in un pub. Tornato a Brockton, insisteva con il baseball, che era la sua passione: ma lanciava così così e la corsa era lenta. Fu scartato più volte. Si “rassegnò” alla boxe che gli avrebbe dato fama e soldi.

Il primo match da professionista lo vide opposto a Carmine Vingo. Altezza 1,93. Lo mise kappaò e Carmine finì in ospedale dove restò due mesi. Rocco lo assisteva tutti i giorni. Pagò tutto lui e quando Carmine si sposò gli regalò la camera da letto. Lo volle in platea a tutti i suoi incontri. Era attento al contante ma generoso. Fu lui a sostenere Joe Louis, il campione finito in miseria. Annunciò il ritiro nel 1955, quando sconfisse Archie Moore. Sotto i suoi pugni era caduto anche Roland La Starza, finito oltre le corde. Lo tentarono per un clamoroso ritorno: tre milioni di dollari per combattere contro Sonny Liston: quasi quasi… Ma aveva promesso a Barbara, sua moglie, che non avrebbe combattuto più. Adesso girava per l’America volando sul suo Cessna 172, alla cloche Glenn Bells, che faceva anche l’autista ed aveva preso 14 multe per eccesso di velocità.

Il 31 agosto del 1969 Bells, nella nebbia, tentò un atterraggio di fortuna vicino all’aeroporto di Newrton, nello Iowa. Ma non ci fu fortuna: morirono Rocky, il pilota e un amico del pugile che molti ritengono il più grande di sempre. Mohammed Alì permettendo. Il suo record di 49 vittorie ha resistito 61 anni, poi Floyd Mayweather ha fatto 50.


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