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Nina Ponomareva

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Nina prese cappello; anzi, secondo le accuse dei commessi del negozio londinese C&A ad Oxford Street e poi secondo il tribunale di Marlborough, cui facevano riferimento gli agenti della stazione di polizia del West End, ne prese addirittura cinque: quello giallo, quello nero, quello malva e quello bianco erano adornati di piume, seguendo la moda dei cappellini che aveva appena lanciato la giovane regina Elisabetta, che, era l’estate del 1956, era sul trono da quattro anni; quello rosso era di lana e, secondo l’accusa, Nina Ponomareva, come ormai era nota con il cognome femminilizzato del secondo marito, con il primo era divenuta Romashkova, dal padre aveva preso Apollonovna, lo aveva infilato nella manica della tuta, la famosa tuta CCCP che è l’acronimo in caratteri cirillici con cui ci si riferiva all’Unione Sovietica: traslitterato sta per SSSR, Sojuz Sovietskich Socialisticeskich Respublik, Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, URSS.

I cappellini con le piume erano tenuti (nascosti, sempre secondo l’accusa) fra gli shoppers dei vari acquisti che l’atleta aveva fatto in quel grande magazzino low cost. C&A era a Londra la mecca del turismo meno scialacquatore (questi preferiva Harrod’s): era un antico marchio di origine tedesca, fondato da due fratelli, Clement e August (C&A, appunto) Brenninkmejer che, partiti da un negozietto a Mettingen, al confine con l’Olanda, avevano poi conquistato i consumatori con innovazioni che, seguite dagli eredi, avevano rivoluzionato il mercato: il pret-à-porter, i modelli riprodotti per taglie, il cambio dei prodotti ritenuti insoddisfacenti entro breve termine, la pubblicità, le innovazioni tecniche sui tessuti, i prezzi bassi che non aspettavano il Black Friday.

I RITRATTI DI PIERO MEI

La discobola Ponomareva era in missione, non solo atletica ma anche diplomatica: gli atleti dell’Unione Sovietica giravano il mondo, a dimostrazione che i comunisti non mangiavano i bambini e soprattutto che i suoi atleti erano vincenti e dunque, per traslazione, che vincente era il regime. In più quelli erano anni da disgelo fra i due mondi in competizione, il capitalista e il socialista. Stalin, il dittatore, il famoso e famigerato Baffone, era morto da tre anni, nel 1953 e al Cremlino stava avanzando la “destalinizzazione” e la presentazione di una possibile “convivenza pacifica”.

Kruscev, il successore di Stalin, aveva in programma una visita ufficiale nel Regno Unito e la parata di campioni era il biglietto di presentazione. Così era stato organizzato allo White City Stadium un incontro amichevole fra la nazionale di atletica del Regno Unito e quella dell’Urss: il calendario agonistico non proponeva ancora tutti i Grandi Eventi e i meeting che oggi lo affollano e i confronti  fra squadre nazionali trovavano spazio e attenzione. Nina Ponomareva era tra le stelle sovietiche: era campione olimpico in carica, il primo rappresentante dell’Urss a vincere una medaglia d’oro ai Giochi. Era accaduto ad Helsinki 1952. Qualche giorno dopo, in un meeting a Odessa, Nina aveva pure stabilito il suo unico record del mondo nella specialità. Nina era cresciuta atleta una volta fuori dal gulag, uno dei tanti dove finivano deportati i dissidenti o presunti tali: in quello di Sverdlovsk, città degli Urali che prima e dopo la vita dell’Urss si chiama Ekaterinenburg e dove furono massacrati l’ultimo zar, oggi santificato, la zarina, lo zarevic e tutte le granduchesse.

Lì erano stati ristretti anche Apollon, un artista e per di più con un padre ecclesiastico, e Anna, una “kulaki”, come venivano chiamati i contadini benestanti, per lo più coltivatori diretti nell’era zarista. Artisti, preti e “kulaki” non erano categorie benvolute dal regime staliniano. E ricambiavano. Nina pensava che i genitori fossero persone straordinarie, volontari dedicati al disboscamento. A sette anni, nel 1936, la famigliola fu liberata dal confino e spostata d’autorità a Essentuchi, città termale del Caucaso: la situazione di lì a poco non era migliore, arrivarono gli occupanti nazisti.

L’atletica fu una scoperta adolescenziale, a guerra finita: prima le gare di corsa, poi i lanci. Nel 1947 vinse i campionati regionali e fu l’inizio di quella carriera che la portò al primo oro sovietico (quel podio di Helsinki fu tutto dell’Urss) e più tardi al “fattaccio” di Oxford Street. Lì i dipendenti di C&A insistevano: era solo una taccheggiatrice, una dei tanti, e per giunta comunista. Nina non capiva l’inglese. Chiamarono l’ambasciata sovietica e un interprete. La merce valeva 12 sterline. Nina diceva che aveva pagato. Dov’è lo scontrino? L’ho lasciato alla cassa come usa da noi. Se volete vi pago un’altra volta, disse, sfoderando un rotolo di rubli. Gli accusatori confermarono il furto. Andarono tutti alla stazione di polizia. Processo immediato: Nina doveva presentarsi il giorno successivo in tribunale.

Non ci andò: si rifugiò in ambasciata. I compagni di squadra partirono, mentre Scotland Yard controllava, cercandola, stazioni ed aeroporti. Il teatro Bolshoi per ritorsione annunciò che intendeva cancellare la tournée del suo balletto prevista in ottobre a Londra, la prima loro uscita dall’Urss. I tabloid sbattevano il mostro in prima pagina: dov’è Nina?

Un deputato conservatore denunciò ai Comuni il metodo Ponomareva: “I comunisti fanno così: si prendono quel che piace loro, come ha fatto la Ponorameva con i cappelli”. Un mese dopo si presentò alla polizia ed al tribunale: tre ore di processo, l’accusa confermava, Nina negava. Fu condannata a 9 sterline di multa e poté partire per Melbourne e i suoi Giochi, ma non li aveva preparati e ottenne solo il bronzo. “Dove hai messo il cappello?” le chiedevano ogni volta che era a portata di domanda giornalistica. Si rifece quattro anni dopo con l’oro di Roma ’60. E poi fu anche a Tokyo ’64: undicesima.


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