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Lester Piggott

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“Cavalca il cavallo, non correre la gara”: era questo il consiglio che Lester Piggott, il più grande fantino di sempre, aveva dettato a Frankie Dettori, in una delle sue rare frasi: Piggott era sordo da un orecchio e mezzo balbuziente, perciò parlava poco e si esercitava nella lettura del labiale.

Si esercitava anche nel vivere affamato: era alto 1,73 metri, Gulliver nella terra di Lilliput nella sala bilance dove i fantini si misurano a peso. Doveva arrivare a poco più di 54 chili per essere nella media del peso che i cavalli debbono portare nelle corse classiche. Significava buttarne via tra i 10 e i 15 dei suoi naturali se non fosse stato un fantino.

Lo era. Dalla nascita, il 5 novembre 1935, ospedale di Wantage, nel Berkshire. A leggere il suo pedigrée, come si fa con i purosangue di cui fu re, papà Keith era un champion jockey in ostacoli, nonno paterno Ernie pure (lo fu tre volte e vinse tre Gran National), bisnonno Tom Cannon idem, la mamma di Lester era Iris Rickaby, della famiglia di fantini Rickaby. Lester montò la prima corsa a Salisbury nel 1948: non si piazzò. Due mesi dopo, sempre in sella a The Chase, vinse la sua prima a Haydock Park.

L’ultima in Gran Bretagna la vinse 46 anni dopo, sempre ad Haydock Park: il cavallo si chiamava Palacegate Jack ed era il vincitore numero 4.493 di Piggott in quel Paese. Superò agevolmente le 5.000 vittorie (dicono 5.300) calcolando quelle ottenute all’estero, dove lo chiamavano spesso quando avevano un cavallo da gran premio: chiedeva il rimborso spese e la percentuale del 15 per cento sull’eventuale premio vinto, quando gli altri fantini prendevano il 5 per cento.

Glielo davano perché Piggott voleva dire spesso vittoria. Tornando alla sala bilance, diceva di lui Steve Cauthen, americano, anche lui celebrità della frusta: “Passa che sembra Gesù: credo che potrebbe camminare sulle acque”. Ci passò 9 volte per vincere il Derby di Epsom, 116 volte quanti sono i suoi successi al Royal Ascot, il meeting di core più celebre del mondo, 30 volte per fare sue le corse classiche (ne ha vinta una per la Regina, le Oaks con Carrozza: Elisabetta scese in pista per accompagnare Lester al trionfo).

I RITRATTI DI PIERO MEI

Il primo Derby lo vinse a 18 anni in sella a Never Say Die, che si poteva giocare a 32 contro 1. Ancora “The Long Fellow” non era quel che divenne poi: il favorito delle casalinghe britanniche. Tutte scommettevano un paio di sterline su quest’uomo rugoso e di poche parole, cui piacevano i gelati. Una volta entrò in un bare ne chiese uno. Lo guardarono tutti, era una celebrity: “Sei Wilson Pickett?” gli chiese la barista. E lui, fantino bianco confuso con il cantante soul nero, rispose semplicemente “yes”. “Non volevo una lunga discussione” disse poi.

Un’altra volta, a Londra, chiese a Lidley, l’amico fantino che guidava la macchina dove i due viaggiavano, di fermarsi davanti a un chiosco; scese, prese due coni, risalì in macchina. Se li gustò entrambi. “Credevo che uno fosse per me” fece Lindley; “Mica mi hai detto che volevi un gelato” rispose Lester leccandosi le labbra. I suoi partner a quattro zampe hanno fatto la storia dell’ippica: Nijinski che vinse la Triplice Corona, Sir Ivor, Petite Etoile, Shergar, Dahlia. I proprietari se lo contendevano, gli allenatori pure: Noel Murless, Vincent O’ Brien.

Era ricercatissimo. Anche dall’Agenzia delle Entrate che lo pizzicò per evasione fiscale: tre milioni di sterline non dichiarati. Un giorno di processo a Ipswich Crown Court, tre anni di prigione come condanna, uscita di cella dopo un anno. Lasciando il carcere di Highpoint disse: “Una perdita di tempo che alla fine ti lascia senza mostrare niente”.

La Regina, per legge, gli tolse un’onorificenza. A nulla valsero gli amici comuni: la “casta” dei cavallari. Uno di questi, Peter O’ Sullivan, scrisse: “Il regime di austerità ha ulteriormente isolato Lester dai suoi simili, ha promosso l’irritabilità e ha favorito l’illusione del pistolero di essere al di sopra della legge”. Montava a cavallo con uno stile speciale, staffe corte e sedere in aria, appollaiato sulla groppa del cavallo. “Perché tieni il sedere così alto?” gli chiedevano. Rispondeva: “Beh, da qualche parte lo devo pur mettere”. Metteva anche le mani da qualche parte: a Deauville, ippodromo francese, perse la frusta e con rapida mossa rubò quella dell’avversario Alain Lequeux. Quando lo chiamarono i Commissari disse: “Non potevo mica correre senza”. Fu punito.

Fu punito molte volte: “E pensare – diceva – che non c’erano tutte quelle telecamere che si sono adesso: non potrei più farlo”. Disse anche, un giorno che cadde di sella e si ruppe una clavicola: “Ho avuto ferite peggiori cadendo dal letto”. Fu avversario di generazioni di fantini: di Sir Gordon Richards, di Scobie Breasley che una volta lo batté per vittorie annuali (Piggott fu champion jockey 11 volte) per un solo successo nel fango dell’ultima giornata di corse a Manchester: “Aveva più esperienza di me: credo che si sia sposato il giorno che sono nato io” scherzò Piggott. Anche i Dettori, papà Gianfranco e figlio Lanfranco detto Frankie, sono stati tra i suoi avversari e amici.

Il giorno che Lester è morto a 86 anni, Frankie ha detto: “Era il mio eroe”. E quel suo amico del gelato mancato, Lindley, si era espresso su di lui: “Dicono che in guerra e in amore tutto sia consentito: Lester ha lasciato stare l’amore”. La guerra in questione era semplicemente una corsa di cavalli, meglio se un gran premio, meglio ancora se un Derby: in Italia ne ha vinti tre.


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