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Gianfranco Dettori

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Prince Paddy guardò forse di traverso quel ragazzetto piccolo che gli si avvicinava, stivali ai piedi e frusta in mano. Prince Paddy era un purosangue sauro: aveva il grande campo visivo di tutti i cavalli, il cui sguardo spazia per 340 gradi dei 360 possibili, un buio solo perpendicolarmente davanti agli occhi (grandi 6,5 centimetri per 5) e dietro la coda. Secondo gli studi, vedono anche due colori, il verde e il blu, che poi sono l’erba e l’acqua, le cose che servono loro per sopravvivere in libertà. I colori dell’uomo, invece, non li distinguerebbero: gli basta percepirne la sagoma e regolarsi. Di solito si regolano a lasciarlo salire in sella: all’inizio cercano di liberarsi, ma gli strumenti inventati dall’uomo per domarli finiscono per convincerli.

Prince Paddy non era quasi mai convinto: lo tenevano, l’uomo riusciva a salire in groppa, ma lui cercava ogni mossa per buttarlo giù e comunque se vinceva l’uomo, il cavallo si lasciava guidare fino alla pista, d’allenamento o da corsa che fosse, e lì prendeva subito un galoppo sfrenato e quel piccoletto in sella pure se si attaccava al morso fino a far sanguinare l’animale, non la aveva mai vinta.

I RITRATTI DI PIERO MEI

Era, Prince Paddy, quello che in scuderia definiscono “una bestiaccia”. Il vecchio Ely Evans che lo allenava era disperato, più ancora il Cavalier Ernesto Coccia, che ne era proprietario. Il ragazzetto mascherato da fantino al lavoro mattutino in quell’alba alla fine degli Anni Sessanta (i purosangue si allenano quando non è ancora giorno) era appena arrivato dalla Sardegna, venuto “in continente” a cercare fortuna. Nome e cognome: Gianfranco Dettori. Dopo molte vittorie sarebbe diventato “Il Mostro”: di bravura, naturalmente.

Gianfranco veniva da Serramanna, un paese del Campidano, nel sud della Sardegna, che tra tante altre bellezze è anche terra di cavalli. È un territorio d’uomini antichi, già in età prenuragica, il villaggio di Cuccuru Ambudu e qualche Menhir. Voleva una nuova vita, più bella di quella del papà minatore, Gianfranco era diciottenne (è del 1941) e venne a cercarla a Roma: valigia di cartone, una mezza idea di cimentarsi sul ring. Si dette subito da fare, come lavapiatti e garzone di fruttivendolo, si presentò all’ippodromo. Prima a quello del trotto, a Tordivalle, poi gli dissero che le misure sue erano quelle del fantino e si presentò a Capannelle, alla prima scuderia entrando a destra, quella del conte Vittorio di San Marzano.

Si proclamò “cavallaro”, lo ingaggiarono. Puliva i box all’inizio, anche quello di Prince Paddy. Sentì della disperazione degli uomini per quella “bestiaccia”, si propose per provarci lui e gli dissero di sì. Prince Paddy magari capì tutto, o forse no. Fatto sta che si comportò come Bucefalo con Alessandro Magno. Si fece cavalcare, si fece guidare, obbedì in tutto e per tutto. Nemmeno Bolkonsky e Wollow, Lemoss o Tolomeo, i cavalli dell’avvocato Carlo d’Alessio in sella ai quali Gianfranco ormai “Mostro” conquistò le grandi corse d’Inghilterra e l’applauso della Regina Elisabetta forse gli presero il cuore e gli crebbero l’autostima come fece Prince Paddy, che fu anche il primo cavallo montato in corsa.

Poi avrebbe vinto 3.798 corse, un po’ meno delle oltre quattromila vinte dal recordman italiano, Enrico Camici, il fantino di Ribot. Ma Camici era stato in sella trent’anni, ritiratosi a 57, Gianfranco ha smesso a 51. Con Camici si incrociò ai tempi in cui andò a lavorare per la Dormello-Olgiata, che era la più grande e vincente scuderia italiana dei tempi. Dirà poi Dettori: “Lì ho imparato tanto, da Camici a spiarlo, e dai cavalli che erano tutti campioni”. Dopo venne l’incontro con Sergio Cumani, un signore milanese che è stato uno dei più grandi allenatori di sempre. Aveva passione e studiava. Capiva uomini e cavalli. Lo obbligò alla staffatura sempre più corta, un buco alla volta, che fatica!, e gli spiegava: “Devi preoccuparti di mantenere l’equilibrio e perciò sei costretto all’immobilità. Ciò non disturba il cavallo, non gli turba l’azione, l’assetto e quando lo devi comandare con la frusta e con le redini lo fai in maniera composta e, quindi, più efficace”.

Fu efficacissimo: riuscì a costruire una rivalità addirittura con Lester Piggott, il fantino che andava per la maggiore in quegli anni negli ippodromi inglesi dai nomi di leggenda, Epsom, Ascot, Newmarket, e di tutto il mondo.

E siccome nell’ippica, specie tra i purosangue, quel che conta è la genealogia, va ricordato che “il Mostro” ha un figlio più “mostruoso” di lui (in senso latino, dove “monstrum” stava per prodigio): Lanfranco, che gli inglesi chiamano Frankie. Secondo alcuni critici che ne capiscono, se Gianfranco è stato il miglior fantino di sempre in Italia, Frankie lo è nel mondo.

Un giorno, il 28 settembre 1996, Frankie ha montato sette cavalli nelle sette corse in programma ad Ascot: Wall Street, Diffident, Mark of Stim, Decorated Hero, Faithfully, Lochangel e Fujiyama Crest. Vinsero tutti e sette: un record. Il “Times” intitolò “Sette vittorie in un pomeriggio trasformano gli uomini in dèi”. Quando seppe che proprio Fujiyama Crest, ormai vecchio, stava per finire all’asta destinato alla macellazione, Frankie mandò ad acquistarlo in Galles e lo portò nel giardino di casa.


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