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Francis Ngannou

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Francis Ngannou, le Colonne d’Ercole e l’inizio di un mondo diverso

Una volta, in uno dei sei tentativi personali non andari a buon fine, l’impresa gli riuscì solo al settimo, Francis Ngannou aveva attraversato lo stretto di Gibilterra remando solo con le braccia e a mani nude. Erano lì, sul monte Calpe nel versante europeo, e il monte Abila, in quello africano, le Colonne d’Ercole che ai tempi antichi e dei miti indicavano la fine del Mediterraneo e anche quella del mondo. Al di là c’era l’ignoto: “non plus ultra” c’era scritto.

Per Francis, invece, rappresentavano l’inizio di un mondo ben diverso da quello da cui fuggiva. Fisicamente era un Ercole: era alto 1,93 metri e pesava, in piena forma, 117 chili. Era una forza e lo aveva dimostrato e più ancora lo avrebbe, una volta guadagnata l’Europa promessa, e poi l’America. Il suo nome d’arte, cioè di ring, diventò “The Predator”, niente di tranquillizzante per i suoi avversari nella disciplina delle MMA, le arti marziali miste.

S’era fatto grande e grosso lavorando, fin da adolescente, nelle cave di sabbia che, sbancando le montagne dei dintorni, facevano, se non la ricchezza, la sopravvivenza di quei poveretti che nascevano nella zona di Batié, nel Camerun. La scuola era troppo lontana per andarci regolarmente e i libri costavano troppo per permettersene l’acquisto. Le bande criminali del circondario volevano arruolarlo, così massiccio come appariva, ma lui scansava lusinghe e minacce. Non voleva quella vita, sognava in grande, oltre le Colonne d’Ercole appunto. La lezione del padre violento e delle storiacce che sentiva raccontare su di lui lo tenevano lontano da quei modi. Povera mamma, pensava, non voglio essere come mio padre.

A 22 anni (era nato nel 1986) scoprì la boxe, ma in quel di Batiè non c’erano palestre: il ring era la strada. Si adattò a lavoretti d’ogni tipo, tanto per aiutare la famiglia a sedersi a tavola, seppure senza continuità diurna. A 26 anni decise di partire: Parigi. L’America…

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Sarebbe stato facile andare all’aeroporto, comprare un biglietto per la Francia: ma i soldi? “Dovevo entrare dagli ingressi posteriori” ha raccontato. Una di queste porte secondarie era lo sportello di un fuoristrada, quello posteriore, al quale s’aggrappò insieme con altri ragazzi in fuga dalla vita grama che li aspettava (e forse anche breve) e s’avviò per il deserto africano, verso la Nigeria, il Niger e più su verso il Mediterraneo. Disidratato, beveva dai rari pozzi (ma forse erano solo pozze) dai cui sgorgavano acqua e carcasse d’animali: “Sapevo che bevendo quell’acqua forse sarei morto, ma non bevendola sarei morto di sicuro”. Ad ogni confine quando andava bene le “forze dell’ordine” gli chiedevano una tangente, quando andava male gli toglievano ogni cosa. Il viaggio dei migranti.

Imparò, per nascondere quei pochi soldi che racimolava lungo il disgraziato itinerario, che poteva sottrarli al banditismo dei guardiani della legge, avvolgendoli nella plastica e mangiandoli, così anche se lo avessero spogliato nudo (come facevano) non avrebbero trovato nulla. La natura gli avrebbe restituito poi, in situazione più sicura, il malloppo.

Riuscì, con l’aiuto interessato dei contrabbandieri, a entrare in Algeria, dal deserto del Sahara, dove il sole bruciava a più di 60 gradi di giorno e gelava a meno di meno cinque gradi di notte. Si procurò in qualche modo un passaporto del Mali: si fosse dichiarato del Camerun lo avrebbero immediatamente rimpatriato, ma con i maliani l’Algeria era più “amichevole”.

Il passaggio in Marocco fu ugualmente violento: più d’una volta Francis Ngannou venne respinto nel deserto algerino e rientrò nelle foreste marocchine o a lottare nelle discariche contro topi e altri animali per assicurarsi rifiuti con cui sopravvivere. C’era la Spagna a un passo ma a Ceuta e Melilla, l’enclave del regno iberico in territorio nordafricano, proponeva un’accoglienza alla spagnola: muri invalicabili, filo spinato, colpi d’arma da fuoco. Prese il marce. Presero lui più di una volta, ma alla fine approdò in Europa. Approdò in prigione, dove lo tennero due mesi. Quando uscì, salì sul primo treno e riuscì ad eludere ogni controllo: arrivò a Parigi, “sans papiers”, senza soldi, senza lavoro. Dormiva in un parcheggio notturno, accovacciato da qualche parte.

Fu allora che incrociò il mondo degli sport di combattimento, la boxe che a casa sua non aveva potuto praticare. Trovò un coach che gli offrì insegnamenti e palestra, quest’ultima divenne anche la sua tana, la sua cuccia: dormiva lì. E lì scoprì le MMA.

Si fece notare, pure se aveva 26 anni quando cominciò, un’età nella quale c’è chi già smette. Aveva un nuovo Paradiso da conquistare: l’America. L’ha conquistata: il povero scavatore di sabbia in Camerun è divenuto il re dei massimi. Ha sferrato quello che i misuratori di tutto hanno definito “il pugno più potente del mondo”. 129.161 unità di potenza. Il precedente record non arrivava a 115 mila.


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