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Hidilyn Diaz

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Gli attrezzi per l’allenamento di Hidilyn Diaz, secchi d’acqua e bastoni di bamboo, la riportavano indietro nel tempo. A quando era bambina e tutti i giorni camminava da casa fino al luogo di pompaggio dell’acqua: nella povera abitazione della famiglia Diaz, papà Eduardo, mamma Emelita e cinque fratelli, l’acqua corrente non scorreva.

Accadeva a Zamboanga, penisola sull’isola di Mindanao che è più grande dell’Olanda, della Corea del Sud, dell’Irlanda o del Portogallo: vi si parla una lingua creola, il chabacano e vi si combatté una delle ultime battaglie della Seconda Guerra Mondiale, fin qualche giorno dopo le atomiche di Hiroshima e Nagasaki. I giapponesi s’infilarono nell’umidità della giungla, e non tutti si arresero; gli americani cercarono di inseguirli sotto la pioggia tropicale che l’unica cosa di asciutto che lasciava in loro era quel piccolo ripostiglio sotto l’elmetto, dove conservavano i fiammiferi e la carta igienica. Hidilyn faceva la portatrice d’acqua quando non aveva ancora dieci anni e l’esercizio le rafforzò oltremisura i muscoli.

La accompagnava nel percorso il cugino, Allen Jayfrus Diaz, e lei, che con quel cugino faceva comunella, ricambiava accompagnandolo in palestra e aspettando ore, guardandolo mentre si allenava nello sport del sollevamento pesi, con bilancieri improvvisati fatti con tubi d’acciaio e pesi di cemento modellati in barattoli di latta, ovviamente svuotati di qualsiasi cosa contenessero all’origine della confezione. Forse un giorno la piccola acquaiola si identificò con quegli ercolini che si dannavano l’anima tirando su quegli attrezzi che le ricordavano il suo quotidiano compito domesticò; forse Allen si stancò di vedere quella cuginetta accovacciata che ne spiava le mosse. Fatto sta che la invitò in quel rettangolo che faceva finta d’essere una pedana e cominciò ad insegnarle il suo sport. Ora Hidilyn non smetteva più: anche lei si fece i suoi bilancieri di acciaio e cemento e si mise a fare su e giù con quelli davanti alla porta di casa. Imparò parecchio, mise su bei muscoli. Vinse pure una gara e qualcuno, mosso a pietà, le regalò un bilanciere vero.

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Tanto lo usò che lo spezzò: giace ancora, ormai arrugginito, da qualche parte della casa. Quante volte qualcuno, il papà, un fratello, un cugino, le avrà urlato “Non mollare la presa adesso! Tienilo come se fosse il riso glutinoso!” che fu quello che urlò davanti al televisore Eduardo la sera del 26 luglio 2021 mentre, a Tokyo, Hidilyn, all’ultimo slancio, sollevava i 127 chili dell’oro olimpico e mamma Emelita, inginocchiata in un angolo della stanza, pregava.

Lo tenne e sentirono per tutta Mindanao un’esplosione di grida e di botti che neppure in quegli ormai lontani giorni della battaglia. Hidilyn era diventata quello che nessun filippino, né uomo né donna, era mai stato nella storia dei Giochi: un campione olimpico. Era da quasi un secolo, da Parigi 1924, che i cittadini dell’arcipelago asiatico ci provavano, non saltando un’Olimpiade se non quella del boicottaggio filo-americano di Mosca ’80. Anche Hidilyn ci aveva già provato: la prima volta, diciassettenne, a Pechino 2008, dove era tra i 15 rappresentanti del suo Paese che seguivano nella sfilata la bandiera affidata a Manny Pacquiao, il campione di boxe che non partecipava ai Giochi ma era alfiere per premio; e, nella categoria dei pesi leggeri, fino a 58 chili, si era classificata undicesima in finale.

Il secondo tentativo, a Londra 2012, nella stessa categoria, ebbe un risultato anche peggiore: non si qualificò per la finale. Però ebbe la soddisfazione di prendere il posto di Pacquiao: non sollevò il bilanciere ma la bandiera delle Filippine, quella bianca, rossa e blu con tre stelle e un sole giallo a otto raggi. Quella bandiera che fece salire sul pennone dell’argento a Rio 2016: non ci saliva da vent’anni, l’insegna delle Filippine, e nessuna donna sua concittadina c’era mai riuscita. Scesa di peso, e dunque nella categoria piuma, meno di 55 chili, la Diaz fu battuta solo da Hsu Chu Ching, una taiwanese che già aveva vinto questa categoria a Londra. Lì per lì Hidilyn pensò che, a 25 anni, fosse l’ora di farla finita con il sollevamento pesi e quella di dedicarsi al lavoro che le avevano dato nell’aeronautica, nonché a farsi una famiglia, magari con Julius Naranjo, ex sollevatore di pesi dell’isola di Guam e ora suo preparatore atletico.

Ma poi, tornata a Mindanao, sommersa di feste, di pesos e con giunta di premio una casa nuova e un appezzamento di terreno, decise di allungare la carriera sportiva, perché se quel ben di Dio era per l’argento, figuriamoci a vincere l’oro! E fino a 29 anni si poteva pure tenere. La scelta si sarebbe mostrata subito felice, giacché la Diaz vinse l’oro ai Giochi Asiatici di Giacarta 2018: due mesi prima della gara in Indonesia, Hidilyn aveva rafforzato il suo team di allenamento, ingaggiando il coach cinese Gao Kaiwen. Però accadde qualcosa che sembrò complicare, non di poco, l’ultimo assalto all’oro olimpico.

Per prepararla al meglio, Gao consigliò alla Diaz e a Julius di andare per un lungo ritiro a Kuala Lumpur, in Malesia, una casetta in periferia e tutte le comodità di palestre attrezzatissime. Era l’inizio del 2020, quando il trio si trasferì in Malesia; era anche l’inizio della pandemia e Hidilyn e team, come tutti o quasi al mondo, si ritrovò in lockdown. C’erano i bilancieri nella casetta malese, ma le palestre risultavano chiuse.

Il team inventò “l’allenamento creativo” che la ragazza fece conoscere al mondo attraverso i suoi social: gli stipiti della porta diventavano la sbarra cui attaccarsi per gli esercizi, la rampa di scale del garage era il terreno degli sprint in salita. L’allenamento creativo ebbe il suo buon effetto: Hidilyn partecipò ai campionati asiatici di Taskhent, così qualificandosi per i Giochi di Tokyo, dove, all’ultimo slancio olimpico sollevò 127 chili, uno più  della cinese Liao Qiuyun: un chilo d’oro, un chilo da urlo. Di papà Eduardo.


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