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Illustrazione di Roberto Melis

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Bela si svegliava la mattina di ogni santo giorno nella sua cameretta, nella casa di Budapest dove era nato e cresceva. Si stropicciava gli occhi e si rigirava fra le lenzuola, e sempre quelle voci, quelle parole, “arabesque, arrière, glissade, pirouette, reverence”; sempre quelle musiche che presto avrebbe imparato essere di Tchaikowsky, “Lo schiaccianoci”, “La Bella Addormentata”, “Il lago dei cigni”. Nell’altra stanza Abramo ed Esther Guttman, i suoi genitori, si scaldavano, si allenavano. Erano ballerini classici. Doveva diventarlo anche lui e lo diventò, il che gli tornò comodo più tardi in America: a 16 anni era già istruttore di danza classica.

Però in quei minuti di dormiveglia fra il sognare ancora e il non ancora vivere la quotidianità, Bela aveva anche altre visioni: il tackle e il dribbling, l’assist e il gol. Perché Bela Guttman voleva anche diventare calciatore. E lo diventò. Bravo, anche in nazionale. Formidabile e rivoluzionario come allenatore, in giro per tutto il mondo, in 14 Paesi diversi.

Eppure la sua fama imperitura rimane legata a una sola e semplicissima frase: “Una squadra portoghese non vincerà una Coppa Europea per 100 anni e il Benfica mai più”. È “la maledizione di Guttman”, pronunciata sbattendo la porta dell’ufficio presidenziale del Benfica stesso, dopo aver vinto per la seconda volta la Coppa dei Campioni, ripetendo il successo dell’anno precedente, quello che aveva interrotto la grande abbuffata del Real Madrid che aveva vinto tutte le prime cinque edizioni del trofeo.

Guttman chiedeva un bel premio e un “ritocchino” per l’ingaggio dell’anno dopo. Gli dissero: non hai vinto anche il campionato (secondo) perciò niente. “Non ho due culi per sedermi su due sedie” osservò Guttman. Non sapeva che non ce n’è bisogno, come avrebbe dimostrato anni dopo Josè Mourinho, che al triplete non ne aveva tre; lo stesso Mourinho che allenando il Porto smentì la prima metà della maledizione, vincendo coppe. Resta, ormai sessantenne, quella sul Benfica.

Bela la lanciò nel 1962, i primi di maggio. La squadra portoghese, che l’anno prima aveva sconfitto in finale il Barcellona, si trovò di fronte il Real Madrid: Guttman ritrovava il “vecchio amico” Ferenc Puskas che giocava in coppia con Alfredo Di Stefano, due dei top di sempre. Il match si mise male per il Benfica: sotto di due gol. Pareggiò e ne prese un terzo. Ma, dopo l’intervallo, suonò un’altra musica: il Benfica vinse 5 a 3. Fu allora che l’allenatore ungherese si presentò all’incasso: respinto, si dimise e maledisse.

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Subito, l’anno successivo, il Benfica raccolse gli effetti di quella frase: perse la terza finale disputata consecutivamente (la coppa fu del Milan). Altre quattro volte i portoghesi hanno disputato quella finale: nel ’65 contro l’Inter, nel ’69 contro il Manchester United, nell’88 contro il Psv Eindhoven (ai rigori) e nel ’90 contro il Milan, a Vienna. I dirigenti del Benfica cercarono di placare gli spiriti maligni e Bela Guttman mandando Eusebio, il più grande giocatore della loro storia, a portare un rigoglioso mazzo di fiori sulla tomba di Guttman, che è sepolto nell’amata Vienna. Se placò quegli interessati, non è dato sapere: di certo non placò Rijkard, che segnò il gol vincente rossonero. Il Benfica è stato anche sconfitto in una finale di Coppa Uefa (nell’83 contro l’Anderlecht) e due dell’Europa League (2013 contro il Chelsea e 2014 contro il Siviglia).

Il calciatore ballerino piaceva ai raffinati palati ungheresi innamorati del calcio danubiano, come si cominciò a definire il modo di interpretare questo sport un po’ alla brasiliana tra Vienna e Budapest, contrapposto alla fisicità del calcio delle origini, quello britannico: appena compiuti i 18 anni lo misero in prima squadra. A lui, però, non piaceva quel clima politico e sociale che si respirava anche in quella Ungheria del dopo Grande Guerra che si andava spargendo a Budapest, autoritarismo e antisemitismo che lo colpivano direttamente con il regime instaurato dal reggente (in attesa di un re d’Ungheria che non tornò mai più). Il reggente si chiamava Horthy ed era una specie di Orban del tempo. Bela Guttman si trasferì a Vienna, città che avrebbe amato più di ogni altra in cui visse e lavorò, fossero San Paolo del Brasile o Milano, Madrid o Amsterdam, Atene o Trieste, Montevideo o New York, Lisbona o Budapest dove tornò con successi speciali (la Honved, che era il Barcellona o il Real degli Anni Cinquanta) e andò pure a Nicosia, nell’isola di Cipro per un gesto d’amore: alla moglie malata i medici avevano ordinato di vivere in un clima mediterraneo e lui andò proprio in mezzo al mare consigliato.

A Vienna vinse il primo scudetto della sua vita, con la squadra dell’Hakoah, che aveva il supporto della comunità ebraica della capitale austriaca. Qui si laureò: in psicologia. Del resto era la città di Sigmund Freud.

Poi “fece un’esperienza” insolita per gli Anni Venti: andò negli Stati Uniti dove, specie gli emigranti europei, cercavano di lanciare il calcio, in un Paese che amava tutti altri sport. Notò Guttman come il pubblico degli States si eccitasse e incitasse i giocatori quando i loro tiri finivano altissimi sulla porta, mentre restavano freddi quando il pallone “s’insaccava” in rete. Questione di punti di vista. I dollari erano pochi, nonostante il sostegno della lobby ebraica che aveva fondato una squadra chiamata Hakoah All Stars, sull’esempio viennese, e con la quale Guttman e altri correligionari giocò dopo una stagione ai New York Giants. Fu allora che il ballo imparato a Budapest gli tornò comodo: aprì con il fratello una scuola di danza, che coinvolgeva specialmente i portuali di New York, che non erano tipi da tutù ma pagavano bene. Mise da parte un buon gruzzolo, ma arrivò il crollo di Wall Street e Bela ha sempre sostenuto di aver perso quel giorno almeno 150 mila dollari.

Tornò in Europa per la carriera da allenatore. Scavallò Hitler, il nazismo e le persecuzioni, mentre tutti i suoi familiari finirono in campi di concentramento. Se gli chiedevano “come hai fatto?” si limitava a dire “Dio mi aiutato” senza dilungarsi in racconti: una rimozione da psicologo? Fu un rivoluzionario con il suo calcio offensivo, il papà di Rinus Michels e Arrigo Sacchi, il nonno di Guardiola e Klopp. Anche lui faceva “stranezze”. Come quella di appendere pneumatici a pali e traverse, obbligando i suoi tiratori scelti a insistere finché il pallone non passava attraverso il buco (“migliorano la mira” diceva). O quell’altra, al momento di dare la formazione che sarebbe scesa in campo, di passare in rassegna tutti i disponibili schierati in fila: li obbligava a respirare, perché voleva scegliere quelli che lo facevano a pieni polmoni (“ci vuole aria buona per giocare”, diceva). Era il direttore tecnico della Honved nel ’56, la squadra di Puskas che, in tournée brasiliana, scelse di non tornare a casa a Budapest sotto il tacco dei carri armati sovietici e si sparpagliò per il mondo dispensando grande calcio. Poi venne, tra il tanto altro, il “maledetto” Benfica. Quella frase del ’62 fu anche un autogol: perché anni dopo tornò a Lisbona. Naturalmente senza vincere coppe.


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