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Gino Bartali e Fausto Coppi

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«Quando parte il Giro d’Italia, dentro di me succede sempre qualcosa di particolare” diceva Eddy Merckx, il più forte ciclista di sempre, perché il più grande resta invece Fausto Coppi. Gli successe cinque volte di partire e arrivare primo, un record che il “Cannibale” belga (lo chiamavano così perché si mangiava ogni traguardo, anche il minore, e ogni avversario, anche il più piccolo) condivide per l’appunto con Fausto Coppi, che chiamavano il “Campionissimo” e con Alfredo Binda, il “Trombettiere di Cittiglio”, suonava nella banda del paese. Binda ad honorem l’ha vinto sei volte, giacché un anno gli pagarono tutti i premi di tappa più quello finale, purché non corresse, altrimenti avrebbe tolto ogni brivido alla gara.

Quest’anno è ottobre il mese della “rosa”: «La maglia rosa, la maglia rosa, è quella cosa che mai non riposa» cantava doppiato alternativamente da un tenore e da un soprano Totò nel film “Totò al Giro d’Italia” nel quale il Principe della Risata vendeva l’anima al diavolo pur di aver garantite la vittoria nel Giro e l’amore di Isa Barzizza. Andava sulle note del “Barbiere di Siviglia”, l’aria “una voce poco fa” e il coro lo facevano Coppi e Bartali, Magni e Bobet, Kubler e Cottur, i campioni del momento. Era appena finita la Seconda Guerra Mondiale e il Giro andò fino a Trieste, a sottolinearne l’italianità temporaneamente perduta e c’era chi voleva che fosse per sempre e accolse a sassate i corridori che lasciarono la vittoria di tappa proprio a Cottur, triestino. Coppi, a quei tempi, vinceva spesso per distacco: a una Milano-Sanremo tagliò il traguardo con un quarto d’ora di vantaggio e lo speaker annunciò per altoparlante “primo Fausto Coppi, aspettando il secondo trasmettiamo musica da ballo”. Musica, e parole, come la sigla 2020, quel “Giragirogiragi” che sposa futurismo e balera, moderna animazione anche nel disegno e frase che sa più di filastrocca che di scioglilingua.

C’è, del resto, chi sostiene che il Giro ci fa tornare bambini: quei bambini che giocavano ritagliando dentro il tappino della bibita la figurina del ciclista, che finiva smerlettata, prima che venissero le biglie, e prima, molto prima, che la schicchera tra pollice e medio fosse soppiantata dal joystick dei videogiochi.

Bambini d’altri tempi. Anche il Giro forse lo è: ma se fosse questo il suo fascino? Il Giro, che è all’edizione 103, ha accompagnato con i suoi colpi di pedale, le sue fughe e le sue cotte, i suoi assolo e le sue volate, la trasformazione dell’Italia. Le strade sterrate, le discese ardite e le risalite alla Lucio Battisti, ora sono “nastri d’asfalto” (a Roma il nastro è bucherellato, ma è un altro discorso); “lassù sulla montagna” si va con il pullman e in comitiva; la velocità va oltre il limite umano e così gli umani cercano di andare oltre, con ogni mezzo; qualcuno scrisse che in montagna “a Coppi spuntavano le ali, a Merckx la scritta Salumi Molteni”. E questo narra della differenza fra lo sport di prima e quello di oggi: ma il Giro ha conservato il suo dna, la poesia della fatica, e perfino di come vengono chiamati i protagonisti: Pantani era il “Pirata”, e non solo perché indossava la bandana, Vincenzo Nibali è lo “Squalo dello Stretto” perché ha risalito l’Italia da Messina in su, fino alle Alpi, che forse sono disegnate, come ha detto qualcuno dei Pirenei, “non per dividere Francia e Spagna, ma per selezionare scalatori e no”.

Ha un suo perché, probabilmente, anche la mutazione di calendario del Giro 2020: la corsa rosa si è sempre disputata fra maggio e giugno, tranne nel 1946 quando fu in programma fra luglio e agosto; l’Italia si metteva in bicicletta, anello di congiunzione fra il cavallo e il motore, ciclisti e no, riprendendo la sua strada verso la rinascita. Anche oggi c’è voglia di rinascita, pure se al posto della bicicletta vogliono dotarci di monopattini. O di pedalata assistita. Disse il campione Fabian Cancellara il giorno che passarono la sua bici allo scanner per scoprire non se avesse la febbre, ma se avesse il motore: «Passate allo scanner anche me: il motore sono io».


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