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Immagini di Diego Armando Maradona

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Ai conoscenti di Diego Armando Maradona basta sentire il suo nome per vederselo davanti; aggiungo che qualsiasi descrizione può soddisfarli, purché non smentisca grossolanamente la ben definita immagine che si attendono. Ad un anno dalla morte statue si inaugurano e nuovi film ne traggono narrazione. Ma quello che emerge è la sua immortalità a prescindere delle opere che lo celebrano o lo raccontano. Dice Ernesto Sabato che l’anima per mostrarsi ai nostri occhi ha bisogno di un corpo. L’anima di Diego per mostrarsi a donne e uomini non ha bisogno del suo corpo.

Poeta del calcio dagli occhi penetranti e dal tocco di piede fatato, vestito in campo di biancoceleste, azzurro Napoli, blaugrana, azul y oro del Boca, che aveva iniziato a toccare il pallone di pezza in periferia.

Maradona era di Fiorito, barrio tra Lomas e Lanus, provincia di Buenos Aires. Ebbene la mia buona sorte, mi ha permesso grazie a mio nipote Sebastiano Leporace, sindacalista che si adopera per quei poveri, di andare a Fiorito dove l’effige di Diego sta nel cartello d’ingresso. Uno dei posti più poveri della terra, uguali a quelli dell’Africa dove i ragazzini conoscevano negli anni Ottanta solo l’immagine del Papa polacco e di Maradona.

Ho conosciuto il suo compagno di squadra Fernando. Oggi fa ancora il cartoleros ma a chi va a Fiorito mostra le foto sgualcite di una squadra di ragazzi e di lui abbracciato a Diego.

A Fiorito accanto ai murales di Diego c’era quello che ricorda otto ragazzini del barrio uccisi a freddo dalla polizia. Walter, Matias, Hugo, Carlos, Micheal, Leo, Chaco erano ben orgogliosi di essere cresciuti nello stesso barrio dove si era forgiato il talento del più grande calciatore di tutti i tempi.

Maradona ha sempre avuto la consapevolezza di provenire da un rione povero. Essere poveri suppone un più immediato possesso della realtà, un immergersi nell’originario gusto aspro delle cose, una conoscenza che sembra mancare ai ricchi.

I fatti della sua vita, pur essendo infiniti e incalcolabili, sono in apparenza facili da elencare. La mano de Dios che si vendica delle Malvinas, lo scudetto e l’arrivo a Napoli, la partita di beneficenza nel fango di Acerra, campione del Mondo, il genio assoluto e la sregolatezza massima.

Ma nel mio ricordo una successione cronologica non si può applicare a Maradona. Catalogarlo, seguire l’ordine dei suoi giorni mi sembra impossibile. Meglio andare alla ricerca della sua eternità, del suo ripetersi. Solo una descrizione senza tempo può restituircelo.

Denigrava i potenti del calcio e della politica ignorando il dubbio. Dicono somigliasse ad un personaggio delle cronache scritte da Hormiga Negra quello che dice: “Son del Basso e non mi abbasso!”.

Nel talento di Diego c’erano le pugnalate nelle balere e agli angoli di strada, le storie di fuoco che fanno ricadere la gloria su chi le racconta. Il suo calcio evocava i cortili del vicinato, i balli, le veglie funebri, i guappi napoletani e argentini, i luoghi di perdizione, la loro carne da galera e da ospedale.

Noi, appassionati di calcio di tutto il mondo, lo abbiamo sempre guardato affascinati, come se ci raccontasse le favole di un paese lontano. Lui si sapeva fragile e mortale, ma i muri della Boca e del San Paolo erano lì a sostenerne la resistenza.

Le sfocate immagini di campagne, cavalli, tanghi, barras bravas, Che Guevara che costituiscono la sfondo memoriale degli argentini non potevano mancare in Maradona.

Il fatto di essere trovato a viversi in certi posti, la ricerca dell’avventura e del successo, alla fine la tenerezza maledetta formano le immagini che perpetueranno la sua memoria.

Io spero che Maradona, morto nello stesso giorno di George Best, l’abbia intesa così, con allegria e rassegnazione, in una delle sue ultime notti vagabonde.

Io immagino che il miglior calciatore di tutti i tempi sia permeabile alla morte, che la sua imminenza lo consegni alle luci eterne, alle tensioni miracolose e ai buoni presentimenti.

A Diego El mas grande.


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