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Un treno

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IL potenziamento della linea Battipaglia-Reggio Calabria è su un binario morto. Per realizzare la variante tra Ogliastro e Sapri servono 3,26 miliardi, ma le coperture finanziarie sono poche briciole: 7 milioni per la progettazione preliminare. Eppure lo studio di fattibilità risale al 2005 e l’opera è inserita già dal 2007 nel contratto di programma tra ministero dei Trasporti e Ferrovie. E’ uno dei tanti esempi del Sud dimenticato. Come l’agognata alta velocità sulla Napoli-Bari.

Per il raddoppio in variante del tratto Apice-Orsara (la “variante di Grottaminarda”) il costo è di 2,67 miliardi ma nel relativo capitolo sulle coperture finanziarie del Mit appare la cifra ZERO. Se l’alta velocità fino a Reggio Calabria, con un costo di quasi 19 miliardi, resta nel libro dei sogni, la realizzazione della Napoli-Bari rischia di diventare un incubo. Su quasi 6 miliardi di investimenti previsti, le risorse finanziarie stanziate non arrivano a 2 miliardi. Nell’ipotesi migliore sarà completata nel 2026. Il numero uno delle Ferrovie, Gianfranco Battisti, ha annunciato il nuovo piano industriale entro Pasqua sbandierando la cifra record di 58 miliardi di investimenti in 5 anni. Circa la metà dovrebbero riguardare la rete. Gli investimenti nel Mezzogiorno dovrebbero essere la priorità, ma guardando i disastri ferroviari compiuti nell’ultimo mezzo secolo da governi e FS al Sud c’è da preoccuparsi. Un segnale indicativo è arrivato. La Lombardia si è già assicurata una ricca dote del piano delle FS. Un mese fa Regione e Rfi hanno presentato un piano di investimenti da 14,6 miliardi entro il 2025 per migliorare la mobilità ferroviaria.

Di contro, gli investimenti per i principali progetti sulle ferrovie al Sud ammontano a 28,4 miliardi, ma le coperture finanziarie arrivano appena a 8,2 miliardi. Il bilancio di mezzo secolo di politica dei trasporti ferroviari nel Mezzogiorno è fallimentare: solo promesse tradite e impegni non rispettati. Non servono sofisticate analisi costi-benefici per verificare che il gap infrastrutturale tra Nord e Sud continua ad allargarsi. Basta sfogliare i vecchi orari ferroviari. Piani faraonici d’investimenti e annunci roboanti per il rilancio del Meridione tramite un sistema ferroviario efficiente non hanno prodotto risultati. Nel 1969 per andare da Roma a Milano in treno servivano 6 ore. Oggi, cpn l’alta velocità, i tempi sono stati abbattuti a 2 ore e 40 minuti. I pochi convogli che non accusano ritardi collegano Napoli e Bari in 3 ore e 49 minuti. Nel 1969 la stessa tratta si percorreva in un quarto d’ora in meno. Tra Napoli e Bari è come se il tempo si sia fermato: anzi, è tornato indietro.

Al confronto il collegamento Roma-Reggio Calabria ha compiuto progressi impressionanti. A fine anni ’60 occorrevano 9 ore e mezza, lo stesso tempo necessario per un tragitto analogo come Roma-Torino. Nel 2001 la distanza tra Reggio e la capitale è scesa a 7 ore e oggi a poco più di 6, ma è da metà anni ’80 che governi e FS promettono di ridurre il tempo a 4 ore. Intanto tra Roma Termini e Torino Porta Nuova il Frecciarossa dell’ingegner Gianfranco Battisti impiega solo 4 ore e 10 e costa poco di più del Roma-Reggio Calabria. La fotografia non lascia dubbi. L’arretramento infrastrutturale del Mezzogiorno è l’effetto inevitabile del taglio delle risorse per la spesa in conto capitale. Gli investimenti in opere pubbliche al Sud hanno cominciato a diminuire dalla seconda metà degli anni ’70, nel Centro-Nord dagli anni Duemila.

Il crescente ritardo del Mezzogiorno verso il resto del Paese si è accentuato a partire dalla fine degli anni ’90 e con la fine dell’intervento straordinario si è chiusa in modo definitivo la funzione assegnata agli investimenti, cioè realizzare la convergenza tra le due aree dell’Italia. La dotazione di infrastrutture ferroviarie tra il 1990 e il 2015 è aumentata del 35,1% nei Paesi Ue, mentre in Italia si è contratta del 13%, con una riduzione del 27,7% nel Mezzogiorno. Le linee elettrificate al Sud sono poco più del 50% su una rete di 5.730 Km, mentre nel Centro-Nord sono l’80%. Altri numeri impietosi. Nel Sud circolano meno treni che in Lombardia, sempre più lenti e vecchi (età media 19,2 anni contro i 13,3 del Nord). “Le scelte di politica infrastrutturale hanno comportato – scrive Svimez nell’ultimo rapporto – una dotazione complessivamente più modesta e di minore qualità nel Mezzogiorno”. Così il divario cresce, perché da troppo tempo gli investimenti al Sud procedono molto lentamente e con limitati miglioramenti qualitativi e tecnologici. L’alta velocità ferroviaria è l’esempio più evidente. La rete italiana per i treni veloci si sviluppa su 1.350 Km di binari e quelli al Sud sono solo il 13,3%.

Il Piano Infrastrutture Strategiche prevede una ripartizione territoriale delle risorse molto sperequata. Il 68,2% dei costi (189,6 miliardi) è concentrato al Centro-Nord e solo 86,4 miliardi nel Mezzogiorno. La flessione degli investimenti pubblici è una costante degli ultimi anni. Con i governi Renzi e Gentiloni la spesa per investimenti è scesa a 35,2 miliardi, nel 2008 era quasi il doppio. Ed è il Sud a essere più penalizzato: la spesa in conto capitale nel Mezzogiorno era l’1,6% del Pil nel 2002, mentre nel 2017 è crollata allo 0,7%. Anche le principali aziende pubbliche hanno penalizzato gli investimenti nel Meridione, e le Ferrovie guidano questa negativa classifica. Sempre secondo i dati Svimez, le FS hanno localizzato al Sud solo il 19% degli investimenti.

La ministra per il Mezzogiorno, Barbara Lezzi, rivendica come titolo di merito aver inserito nell’ultima legge di bilancio il vincolo in base al quale gli investimenti pubblici devono prevedere una quota del 34% riservata al Sud. Ma in un’economia sempre più globalizzata e digitalizzata, la dotazione di infrastrutture è un requisito di vitale importanza per la crescita e la competitività. Anche il governo gialloverde ha sbandierato un nuovo paradigma per il rilancio del Sud. Far ripartire gli investimenti pubblici è lo slogan del premier Giuseppe Conte e del ministro dell’Economia, Giovanni Tria.

La legge di bilancio, però, per finanziare reddito di cittadinanza e quota 100 ha tagliato ancora la spesa per investimenti da 2 miliardi e 250 milioni di euro. La scure si è abbattuta sulle ferrovie, rimodulando 600 milioni dei fondi FS, sui cofinanziamenti a fondi strutturali Ue per 850 milioni e sul Fondo sviluppo e coesione per altri 850 milioni. Quasi nullo, tuttavia, l’effetto reale sulle ferrovie, che possono rimediare al “buco” delle risorse aumentando l’autofinanziamento o con mutui della Bei. Inoltre il contratto di programma delle FS 2017-2021 prevede finanziamenti per 53,6 miliardi, per cui la rimodulazione incide al massimo per il 12%. Più che le risorse finanziarie, a incidere negativamente sono le scelte di investimenti e soprattutto il timing.

“La grande difficoltà – denuncia l’Ance – è trasformare la disponibilità economica in cantieri”. In Italia il tempo medio di realizzazione delle opere è di circa 4,4 anni: 3 anni per appalti inferiori ai 100mila euro, fino a 15,7 anni per opere oltre 100 milioni. Basta guardare la storia infinita della Napoli-Bari, per la quale la ministra Lezzi ha aperto l’ennesimo tavolo. Alcune scelte, in particolare il contratto di programma tra ministero dei Trasporti e Rfi e il piano di investimenti per la banda ultralarga, mostrano il consolidarsi della tendenza a impegnare più risorse dove si ritiene maggiore la produttività e più brevi i tempi di risposta. Una prassi che rischia di accrescere ulteriormente il divario Nord-Sud. Non è solo questione di alta velocità. Gli investimenti sull’infrastruttura sono necessari per ammodernare il sistema e consentire lo sviluppo del traffico ferroviario.

Si tratta degli interventi per adeguare la rete agli standard del cosiddetto “treno merci europeo” e cioè alzare tutta la sagoma delle gallerie per consentire il transito di carri che trasportano grandi container o semiarticolati dei camion, cosa oggi impossibile se non su determinati tratti. Aumentare la capacità di formazione di convogli lunghi perlomeno oltre 700 metri è altrettanto impossibile, mentre è possibile in altri Paesi europei, e aumentare la capacità assiale dei convogli, sempre con l’obiettivo di trasportare più merci. Nel settore del traffico pendolare, gli investimenti riguardano l’implementazione dei sistemi tecnologici che guidano la circolazione dei treni soprattutto nei grandi nodi metropolitani: ancora una volta significa poter garantire – grazie a nuovi e sofisticati sistemi di sicurezza – che circolino più treni nello stesso spazio temporale.

Senza questi investimenti il paradosso è grandi opere come Tav e altri trafori sarebbero inutili. Avremmo linee potenziate ai valichi per far transitare treni merci e convogli costretti poi a fermarsi (o a subire rotture di carico, a favore di camion o convogli molto meno efficaci e con adeguate capacità trasportistiche), mentre nel settore dei pendolari avremmo treni rinnovati e con aumentata capacità di trasportare persone ma con pochi binari e limitata capacità di accoglienza nelle stazioni. E tutto ciò per il Mezzogiorno è molto più di un rischio.


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