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Siamo pieni di uomini che fanno la punta alla matita. Ognuno la fa più appuntita dell’altro e sono in prevalenza uomini di finanza e controller, ma nessuno di loro ha la matita per disegnare un progetto industriale. Abbiamo smarrito quella cultura industriale che ha il senso dello Stato e gestisce le infrastrutture con responsabilità verso la comunità. Soddisfa gli azionisti pubblici e di mercato, ma ha responsabilità e strategia industriale, fa pochi debiti e molti investimenti. Ha un progetto per il Paese. Abbiamo sostituito un capitalismo di stato che conosceva le regole del mercato e guardava lontano con la più rapace delle famiglie del capitalismo privato europeo che sono quelle italiane per le quali l’utile viene sempre prima della sicurezza. Facciamo i conti con uno Stato che non sa controllare e non sa spendere, sa solo bloccare tutto, rientra a pieno titolo nella malattia che tocca temperature oltre i 40 gradi ogni volta che qualcuno deve mettere una firma per sbloccare un’opera e si vede circondato a vista da una macchina della giustizia pronta a intervenire sempre e comunque e, molto spesso, anche l’una contro l’altra. Scene orribili di fine stagione.

Al capezzale dell’Italia di oggi ci sono i due monconi rimasti in piedi del viadotto dell’autostrada A6 Torino-Savona, travolto da una frana, che ci riportano con la testa e con il cuore tra le macerie del Ponte Morandi a Genova e il suo carico terribile di vite spezzate. C’è anche una compagnia di bandiera (Alitalia) che insegue un socio americano il quale per entrare con quattro soldi bucati le chiede di ridurre voli e fatturato e, quindi, la sua morte tra un calcolo masochista e l’altro delle perdite accumulate e dei debiti contratti senza essere capaci (mai) di elaborare un progetto industriale degno di questo nome.

C’è, infine, una questione che riguarda l’acciaio, il siderurgico di Taranto e il suo indotto, la riqualificazione ambientale del sito e dei territori adiacenti, che è ancora prima la partita strategica della manifattura italiana perché intorno a quel tipo di acciaio ruota il futuro dei pezzi sopravvissuti di industria meccanica di qualità del Paese e che rende, per questi motivi, semplicemente patetici i ragionamenti di chi vuole escludere interventi pubblici come se non fosse possibile operare secondo logiche di mercato con i soldi dello Stato. È successo in un passato luminoso, non capisco perché non ci si dovrebbe riprovare.

Spieghiamoci con qualche esempio. La Torino-Savona rientrava nel perimetro di concessioni comprate da Atlantia dallo Stato, ma sono state cedute ai Gavio. La stessa cosa è avvenuta con la Autostrada dei Parchi (Roma-Pescara, Roma-Teramo) di cui Atlantia deteneva la maggioranza ceduta ai Toto fino a allora soci di minoranza. In pratica, il management della famiglia Benetton ha deciso di liberarsi delle due autostrade di montagna – viadotto, gallerie, monti – che imponevano, per parere unanime, “numerose opere d’arte” per la loro manutenzione ordinaria e straordinaria essendo entrambe piuttosto datate. Bisogna chiedersi oggi qual era lo stato di manutenzione straordinaria garantito dai concessionari privati al momento della cessione a altri privati. Resta la sgradevole sensazione che il primo operatore autostradale al mondo e primo incumbent italiano sia voluto uscire dalla gestione delle reti che richiedevano bonifiche e manutenzioni di peso confermando di essere un operatore che vuole sfruttare al massimo la rendita tariffaria ma tende a scansare come può l’investimento obbligatorio in sicurezza.

Per amore della verità, è bene chiarire che la famiglia Benetton non è mai entrata direttamente nella gestione. Chi ha fatto da muro è lo strato manageriale espressione di Edizione, la holding che controlla Atlantia, dove sopra e sotto, dopo il lungo interregno di Castellucci, poco o nulla è cambiato. Da Guenzi a Bertazzo fino a Mion e al presidente di Atlantia Cerchiai, con sfumature differenti, la cifra prevalente resta quella degli uomini di controllo di gestione e di finanza o di impostazione presidenzialista per cui è legittimo pensare che siano tutti impegnati a affinare la punta della matita, ma si fa fatica a capire quali siano le mani con cui quella matita può disegnare un progetto industriale dove gli investimenti hanno la collocazione che meritano in infrastrutture così delicate. Questo è il punto. Ovviamente il problema non si ferma qui perché la partita della sicurezza autostradale come quella di contrasto al dissesto idrogeologico e così via si scontrano con i difetti sistemici di una burocrazia decisionale e di una burocrazia autorizzativa.

La prima dovrebbe pesare meno in un privato che nel pubblico, ma incredibilmente spesso non è così; la seconda è espressione di uno Stato piccolo piccolo (l’Italia) che ha frazionato la sua sovranità in venti staterelli ancora più piccoli e in lotta tra di loro e che quando ha deciso di restituire le competenze come giusto al ministero delle Infrastrutture lo ha trovato sguarnito (come documenta Laura Sala non sanno spendere – dote di 17 miliardi erogato pari a zero – neppure sanno fare i controlli) mentre si sarebbero potuti rivolgere più efficacemente agli ingegneri dell’Anas che almeno la materia la conoscono. Le lacune del controllore pubblico sono vistose e disarmanti perché lui, e non altri, deve imporre ai privati di fare gli investimenti necessari. Al di là di collusioni, sempre possibili, si paga proprio il ribaltamento sbagliato di valori tra un privato sempre migliore del pubblico. Nella gestione delle grandi imprese di servizi e manifatturiere i fatti hanno dimostrato l’esatto contrario e prima se ne prende coscienza meglio è.

Ancora più delicato il problema dello Stato e delle Regioni come soggetti capaci di fare investimenti. Al di là dello scippo ventennale di risorse dai fondi di coesione e dai contributi comunitari, il punto gravissimo è che le due macchine non funzionano, bloccano tutto, e una parte significativa della spesa per investimenti (quasi tutta al Nord perché al Sud è stata azzerata) finisce in assistenzialismo. È scaduto da molto il tempo per dotarsi di agenzie snelle a livello centrale specializzate (cominciamo con sistemi idrici, ambiente, ferrovie) dotate di poteri sostitutivi e di commissari ad hoc scegliendo tra persone di spessore come Vera Corbelli, bonifica di Taranto, che possono ripetere per qualità la stagione dei Pescatore. Bisogna crederci, sporcarsi le mani con le cose complicate, e passare dalle parole ai fatti. A proposito di Alitalia, e in modo diverso di ex Ilva, mi piace qui ricordare l’esperienza di Flavio Cattaneo, manager di valore assoluto di cultura industriale, quando arrivò a Italo considerato poco più di un cadavere: -90 milioni di ebitda, 1 miliardo di debiti, 30% di esuberi del personale.

Tutti gli chiedevano di tagliare treni e personale, ma lui raddoppiò i treni e assunse in solidarietà il 30% di lavoratori in più. Il cadavere uscì dalla bara e cominciò a dare una pista a tutti perché camminava sulle gambe di un progetto industriale di un capo azienda che ha un disegno e sa quali sono le priorità. Noi passiamo il tempo a scandalizzarci se dovesse farsi carico una società di capitale pubblico con manager di valore della questione Ilva e a trattare con Delta Airlines che offre 100 miserabili milioni e ci chiede di ridurre i voli intercontinentali e di cedere a loro quote delle nostre rotte interne. Ma avete mai visto un’azienda che si può risanare tagliando brutalmente il suo fatturato? Siamo seri, risparmiateci almeno la farsa sullo Stato imprenditore. Anche su autostrade e viadotti non si tratta di tagliare le concessioni, ma di azzerare i vertici e di mettere persone autorevoli e competenti. Si chieda aiuto, se necessario, alle sopravvissute competenze di gestione industriale e si chieda loro di allevare una nuova generazione di uomini di industria non di finanza. Soprattutto, lo si faccia in fretta.


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