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Un blindato prodotto in Italia

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C’è chi in questi giorni di contenimento si sveglia e va al lavoro per produrre la sua quota di mitragliette. Succede a Brescia, città martire del Coronavirus. Dove la guerra deve essere considerata un’attività di interesse strategico ed essenziale, anche in tempi di quarantena.

E sì, perché altrimenti non si spiega come sia possibile che i lavoratori della Oto Melara spa, società controllata da Finmeccanica, non si sono mai fermati. Neanche nei giorni in cui le sirene delle ambulanze con a bordo i malati di Codiv-19 perforavano i timpani come un proiettile. Attività ridotta al 20% ma al lavoro, senza soluzione di continuità. Mitragliette a raffica e canne per i cannoni a getto continuo.

«Le disdette delle commesse non sono arrivate e l’attività, sia pure in misura ridotta, è continuata – conferma Claudio Gonzato, coordinatore nazionale di Fiom-Cgil Aerospazio – Ci sono imprese che hanno riaperto e altre che non si sono mai fermate».

«Al Sud – riprende il sindacalista – l’attività legata all’aviazione civile s’è fermata. Gli stabilimenti di Pomigliano, Foggia, Grottaglie e Nola, dove si producevano i motori dei due principali player Boeing e Airbus, sono chiusi. E le prospettive non sono chiare. Non si sa quali e quante compagnie aeree riusciranno a salvarsi».

Al Nord, il 30% dei lavoratori di Leonardo – Aerospace, è rimasto in attività. Un ramo d’azienda realizza velivoli per il trasporto di attrezzature sanitarie. Un altro, a Cameri, vicino Novara, assembla e collauda gli F35, un caccia da impiegare in guerra. Dalla Difesa non sono arrivate disdette. «Per questo io dico che quando si deciderà di ripartire – sostiene Gonzato – si dovrà fare una scelta non solo economica ma anche ideologica. Come produrre? E cosa?».

Non è diverso il dilemma della siderurgia. Il segretario Fiom del settore, Gianni Venturi lancia un’accusa precisa: «Nel nostro caso è molto complesso stabilire quante imprese grandi e piccole sono rimaste aperte. Ma c’è un altro settore in cui la connessione tra quello che è accaduto nel perimetro Bergamo-Brescia-Piacenza-Cremona e la riduzione delle misure che sono state prese dal governo con il Dpcm del 22 marzo è evidente. In alcuni casi il raggio del contagio è sovrapponibile alla mappa del manifatturiero».

I principali siti siderurgici rimasti aperti sono l’Ex Ilva di Taranto e Arvedi a Cremona. Nel primo hanno continuato l’attività 3.500 dipendenti, nel secondo tra i 1.500 e i 2.000 In alcuni casi il distanziamento non è possibile. «C’è un problema di adeguamento alle nuove norme di contenimento – riprende Venturi – ma anche di mobilità. E anche i trasporti dovranno adeguarsi. Va ripensato il percorso casa-lavoro. Il comitato scientifico dovrà valutarlo bene. Finora gli ispettori si sono visti poco. Hanno un organico molto ridotto. Abbiamo proposto di richiamare anche quelli che sono andati da poco in pensione e aspettiamo una risposta».

La demografia delle imprese lombarde è assai arzigogolata. Le attività hanno continuato a sbocciare anche in tempo di crisi. Nella sola provincia di Bergamo, le aziende che hanno chiesto di riaprire scrivendo al prefetto sono all’incirca 2.300. Tutte autocertificandosi. Nel 90% dei casi la prefettura non batte ciglio. Vale una sorta di silenzio-assenso. Infilarsi nelle maglie dei Codici Ateco è quanto di più semplice vi possa essere. Del resto, si può dire di no alle 220 aziende bergamasche che forniscono acqua e sono addette alla manutenzione della rete fognaria? O alle 160 che si occupano di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata? E con le 2.846 che offrono servizi di supporto alle aziende e sono già operative come la mettiamo? Sempre a Bergamo ci sono poco meno di 40 mila imprese classificate come varie. Una tipologia indistinta, un contenitore di professionisti, dipendenti, operai, factotum che aspettano solo il via libera. L’escamotage per rientrare tra gli “essenziali” si trova. Idem a Brescia, dove i numeri sono più o meno gli stessi. E perché escludere le attività professionali scientifiche e tecniche?

Si fa presto insomma a dire servizi essenziali. Chi più chi meno tutti si ritengono indispensabili. Prendiamo ad esempio l’Ancma, acronimo che sta per associazione nazionale ciclo e motociclo. Il presidente Paolo Magri ieri ha preso carte e penna e ha scritto al premier Giuseppe Conte: «Il nostro è il paese che vanta il maggior parco circolante di 2 ruote a motore del continente con circa 8 milioni di utilizzatori; le nostre aziende generano un fatturato di 5 miliardi di euro e danno lavoro a circa 60 mila persone. La maggior parte delle vendite si concentra nel periodo primaverile/festivo per cui a differenza di altri settori industriali, il nostro non avrà la possibilità di recuperare nella stagione autunnale/invernale».

«Accogliamo in modo positivo l’apertura in via sperimentale di alcune imprese – tira un sospiro di sollievo il presidente di Confindustria veneto Enrico Carrato, che si affretta ad aggiungere – ma per noi vale il principio che solo le aziende sicure possono lavorare». Appartiene alla categoria degli “aperti per virus”, quanti sostengono che molte aziende si sarebbero già attrezzate per affrontare la fase 2 della ripartenza.

Francesca Re David, segretaria generale della Fiom Cgil, resta invece prudente «Bisogna estendere la catena della sicurezza alle aziende più piccole e rafforzare i controlli degli ispettori del lavoro. L’accordo unitario con Fca ridisegna la fabbrica ai tempi del Codiv-19 ma non è una forzatura alla riapertura».

Chi invece ha fretta è Matteo Renzi. Spinge per tirare su le saracinesche «altrimenti dalla pandemia si passera alla carestia». Il leader di Italia Viva fa l’esempio del presidente di Confindustria Brescia «che ha una acciaieria in Germania e prende quote di mercato alle italiane che sono bloccate». Non è un dettaglio da poco però che tra noi e i tedeschi il saldo dei lutti marchi una differenza di circa 15 mila morti. Non facciamoli rivoltare nella tomba.

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