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Gli studenti dell’Unical al fondo rustico di Chiaiano

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di GIANCARLO COSTABILE*

C’È una Calabria inginocchiata, e non soltanto al potere mafioso. C’è una Calabria che vive di inchini. Che si nutre di indifferenza, legittimando quotidianamente una pedagogia dello struzzo. Che ha scelto il servaggio come modalità di stare al mondo e la subalternità come profilo esistenziale. Nel baciamano di San Luca c’è tutta questa ‘ontologia della debolezza’: il folklore isterico di chi ha paura della libertà.

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La Calabria ha innegabilmente familiarità con i segni del potere ‘ndranghetista: è inutile negarlo. E soprattutto ha un legame osmotico con quell’architettura della conquista che ha scandito la storia postunitaria di questi territori, nella cornice più ampia della colonizzazione del Mezzogiorno. Ma la nostra terra non è riducibile al rito dell’omaggio feudale andato in scena nella Locride, qualche settimana fa.

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Questa narrazione è fuorviante, ed è funzionale esclusivamente agli interessi dell’antimafia commerciale, salottiera e radical chic, che, con la sua ipocrisia, è il più temibile tra i nemici dell’emancipazione del Meridione. C’è anche, e forse soprattutto, una Calabria che si ribella a questa iconografia del potere, e che ha scelto con fermezza un’altra direzione di marcia: ci sono, ad esempio, le cooperative di Libera Terra, a partire dalla Valle del Marro fondata da don Pino Demasi, nella Piana di Gioia Tauro. Nella Locride, lavora da tempo, e con risultati significativi, il consorzio Goel di Vincenzo Linarello.

Ci sono imprenditori che hanno denunciato il racket delle estorsioni: Rocco Mangiardi a Lamezia Terme, Gaetano Saffioti a Palmi, Tiberio Bentivoglio a Reggio Calabria, e Pino Masciari a Vibo Valentia. La chiesa ha sacerdoti militanti come don Francesco Savino, vescovo di Cassano, nel Cosentino, e don Ennio Stamile, capo di Libera Calabria, che rappresentano con la loro azione pedagogica un forte e decisivo elemento di rottura delle relazioni storicamente ambigue tra mafia e clero calabrese. La scuola che educa alla bellezza ha il volto di Mimma Cacciatore, che a San Luca non si è lasciata intimidire dalla ‘ndrangheta, e dalle sue evidenti collusioni con il sistema politico-sociale del luogo. Senza retorica, c’è una Calabria che ha (ri)scoperto il potere dei segni, secondo la lezione di don Tonino Bello, e non ha timore di praticare il sentiero della libertà.

Dobbiamo, però, continuare a osare, se vogliamo uscire definitivamente dal labirinto coloniale e riprendere in mano il libro della (nostra) storia. L’educazione alla stato di minorità, che è il cuore pedagogico della cultura mafiosa utilizzata dal potere romano per governare il sottosviluppo economico-civile del Mezzogiorno postrisorgimentale, si può mettere in discussone attraverso una nuova e radicale azione di egemonia culturale. A partire dalle periferie meridionali, per arrivare ai Palazzi del potere centrale: la costruzione dal basso di un’educazione popolare e coscientizzatrice in grado di farsi prassi di liberazione cognitiva e strumento di lotta sociale.

La Calabria e il Sud devono rompere questa pedagogia dell’inginocchiatoio. Fin in fondo. Senza reticenze e ambiguità. La liberazione è un parto doloroso, ma è genesi collettiva di speranza. Non siamo condannati a vivere di espedienti esistenziali e compromessi morali. Esiste già un nuovo alfabeto della liberazione: si tratta di costruire insieme la sua grammatica, che è quella del Noi.

*docente di Storia dell’educazione alla democrazia

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