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Fabrizio Ferracane e Lina Siciliano ieri alla premiazione al Bif&st di Bari per il film “Una femmina”

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“A tutte le fimmine ribelli” dice la dedica in testa al film di Francesco Costabile, Una femmina, proiettato per la quinta giornata del Bif&st. Film atteso quanto la sua protagonista, Lina Siciliano che ha tenuto con l’attore Fabrizio Ferracane la masterclass sul palco del Bif&st: nella serata dell’Anteprima internazionale al Petruzzelli hanno ricevuto rispettivamente il premio Mariangela Melato per l’attrice rivelazione e il Premio Alberto Sordi per il migliore attore non protagonista a Fabrizio Ferracane.

Lina Siciliano, 26 anni, nata a Cariati, in provincia di Cosenza, viene portata dai servizi sociali a Cosenza, in una casa famiglia. A 20 anni va a Napoli ospite da una sua amica, dove crea quello che non aveva: una famiglia, un figlio e un compagno a cui insegnerà ad essere un Uomo, con la U maiuscola come racconta.

Rosa, protagonista del film, non potrebbe esistere senza l’attrice Lina Siciliano: pelle olivastra ed occhi neri che hanno accumulato violenza ed oscurità per poi esplodere sullo schermo come luce, potenza, e forza ribelle. Il film, tratto dalla storia vera, già tracciata nel libro Fimmine Ribelli di Lirio Abbate, incarna la storia di Rosa, nata in una famiglia della ‘ndrangheta a Verbicaro, in provincia di Cosenza: la madre è uccisa dallo zio per aver parlato troppo, secondo gergo, quando era piccola.

Cresce con una famiglia dove con la mani si faceva tutto: il latte di capra, l’agnello a fette, il passato di pomodoro. E a mano nuda si uccideva chi era di troppo. La famiglia spacciava droga e con il tempo Rosa si trasforma da femmina a donna: matura il sentimento di vendetta per la madre uccisa e prt le violenza che si perpetuano nell’imporre il silenzio e regole di vita in cui le donne sono solo figlie o mogli. In un paesaggio affastellato nella pietra grezza tra uomini rozzi, per valli sante ed incontaminate, Rosa prova ad emanciparsi da tutto questo con la forza dell’amore di Gianni, con cui scappa dopo aver ucciso lo zio.

Una volta fuggiti sono raggiunti di notte da mandanti del boss di paese che sparano Gianni e lei è costretta a diventare la compagna del malavitoso. In silenzio architetta la svolta del suo destino che si compie nella scelta di stare dalla parte della giustizia, che arriva durante la processione in paese con impatto d’immagine. Il film restituisce con onestà la violenza su larga scala, la Calabria tra le labirintiche vinedde dei borghi da 2000 abitanti, il dialetto, che sembra invocare un lamento, e finanche la luminosità della luna piena che nelle valli desolata sgombra le colpe, dolorosa complessità umana, ed incoraggia Rosa a cambiare e ritrarre il dado.

«Noi siamo bestie, senza uomini non siamo nessuno» è questo che dice la nonna e da questo si allontana Rosa. Dall’essere bestie che non credono di poter scegliere ma solo subire la malattia della propria terra che serpeggia nell’animo della nonna, intimorisce la zia, ma non abbatte la protagonista, che per cambiare il proprio destino, cambia quello di tutti.

Lina Siciliano dimostra di essere un’attrice per assorbire nei suoi movimenti l’istintività selvaggia e generosa della sua terra e nei suoi occhi l’intelligenza e la fermezza di chi sa usare sullo schermo l’arma del silenzio per ribaltare la propria condizione: poche parole e molti fatti, così il film, e così la storia vera.

Chi uomo e chi è femmina?
«Al termine femmina, titolo del film è stato attribuito l’articolo singolare: la femmina è una, singolare e sola. Sai oggi ti dicono sei una femmina, per discriminare, come se fossi un animale. Rosa, porta in grembo una bambina ma vuole darle un destino diverso, perché ha preso consapevolezza che può cambiare il dover essere femmina, quello che le hanno inculcato. In ognuno di noi abita quella Rosa che vuole ribaltare le imposizioni, cambiare le regole».

È un film che parla di violenza ma anche di micro-violenza
«Lei quando si stava rassegnando al destino con Ciccio solo in apparenza, ma Rosa aveva calcolato tutto: lei fa passare del tempo affinché tutti possano dimenticare il suo lato ribelle, ma è un modo per distrarre l’attenzione, perché aveva già deciso durante la processione di far arrivare la polizia. Io ho vissuto fino ai 5 anni a Cariati, e poi i servizi sociali mi hanno mandato a Cosenza nella casa famiglia».

È più facile urlare la violenza che toccarla, ma cosa hai rubato dalla tua vita per questo film?
«La voglia di vivere, di emanciparmi, ho scavato. Da dove sono venuta mi ha dato anche la possibilità di diplomarmi. La casa famiglia è vista in modo negativo, ma ti fa crescere. Il fatto che non avessi famiglia mi ha aiutato: perché è come se avessi dato a Rosa la possibilità di scegliersi la sua futura famiglia».

Cosa c’è in comune nel destino tra te e Rosa, e quanto ti affidi al destino?
«Io e Rosa abbiamo architettato entrambe il nostro destino: abbiamo dovuto voltare pagina per cambiare destino. Non ho lasciato la Calabria perché non mi piaceva, ma il contesto lo sentivo sbagliato come Rosa. Lei decide di mettersi contro la sua famiglia ed io ho deciso di costruirla. Bisogna cancellare per voltare pagina».

Rosa ha mai avuto paura di essere ammazzata?
Che rapporto c’è tra la bellezza dirompente femminile che eserciti nel film e i paesaggi calabresi desolati?
«Francesco voleva una ragazza dai tratti calabresi, con l’accento calabrese. E diventa un legame: lui ha permesso di far vedere la Calabria dai canti, ai tratti somatici, ai paesaggi, fino ai balli».

Cosa diresti alle ragazze che come te sentono stretto il contesto in cui vivono?
«A me manca. Io vivo a Napoli dove ho una famiglia splendida, che mi sono costruita io. Ho permesso anche a mio figlio di avere un padre che sia un padre. Il problema non è la Calabria, ma il fatto che sia narrata sempre come l’entroterra. Ci sono controlli, ma sono poveri, e la criminalità si insedia nei vuoti, dove non c’è cultura. Si radica lì dove manca la cultura, nei labirinti dei paesi.

Purtroppo manca questo: la voglia di far emergere le sue potenzialità, di far esprimere la sua bellezza. Gianni davanti alla valle fa un inno al paesaggio ma dice anche “noi tutta questa bellezza non ce la meritiamo” come se volesse dire che tutta questa violenza macchia davanti alla purezza incontaminata di questi paesaggi».

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