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Una città bellissima e piena di contraddizioni. Bari negli anni’60 era un posto affascinante e difficile da vivere fino in fondo: una città piena di vita, con alcune zone che ne disegnavano fisionomia e caratteristiche essenziali. Un insieme di luoghi particolari, una sorta di affresco così, a macchia di leopardo.

Mi vengono in mente i giardini di Piazza Umberto, davanti all’Ateneo, ritrovo storico del mondo giovanile della sinistra sempre all’erta, attento a non subire attacchi improvvisi dalle bande di parte politica avversa che a volte provocavano lunghe corse e qualche pestaggio; ‘Nderr a la lanz, icona del sabato mattina dei baresi dedicato alla passeggiata sul lungomare fra i frutti di mare, su tutti le cozze – prima della tragedia del colera -, i ricci e la “tagliatella”, che si sposavano quasi sempre con una Peroni (a Bari non di chiamava birra, ma proprio così, Peroni). E poi i posti dove era meglio non andare, poco sicuri: su tutti Bari vecchia, e poi il Quartiere San Paolo, in gergo il Cep.

Me la ricordo così la mia Bari, dove ho vissuto i miei primi 18 anni prima di fare come tanti altri giovani, in quegli anni: emigrare al Nord per studiare, per cercare una strada che, evidentemente, lì non pareva possibile. Ma pur nelle grandi contraddizioni che caratterizzavano la Bari degli anni ’60, c’era comunque qualcosa che accomunava tutti, giovani e anziani, in centro o in periferia, benestanti o no: ecco, quella cosa era proprio… la Bari. “Sciam a vdè la Bar, dmenk?” era la domanda che circolava frequentemente nei più disparati gruppi di persone, nei periodi in cui il campionato di calcio era in pieno svolgimento.

La Bari, perché la squadra di calcio è femminile, come un oggetto d’amore ideale, il sogno che univa una moltitudine di tifosi e appassionati di tutte le età. Non importava quale fosse il campionato: poteva essere la B, la C, meglio ovviamente se la rara serie A. L’amore dei baresi per la Bari era irremovibile, incrollabile, totale. In quegli anni, poi, era ancora frequente trovare molti ragazzi nati in città o in provincia che coronavano il proprio sogno di giocare “a pallone” nella squadra della propria città o comunque in quella che era la migliore squadra della regione: queste presenze di giocatori nati a Bari e provincia o al massimo nella regione, aumentavano sensibilmente il legame dei tifosi con la squadra, con i galletti.

E chi se le dimentica alcune domeniche epiche legate al sogno di vedere vincere la Bari? Delle sfide entusiasmanti legate alle promozioni, ma anche di quelle tragiche che concludevano il campionato con un’amarissima retrocessione? Sono ricordi rimasti scolpiti nella mia memoria di adolescente.

All’incirca a metà degli anni ’60 andare allo Stadio, al campo come si diceva in gergo, era un vero e proprio rito collettivo. Quella che poi l’antropologo Desmond Morris ha definito “la tribù del calcio” era una umanità che si identificava nei colori biancorossi totalmente, e che gioiva delle vittorie della squadra come se si fosse trattato di una sorta di riscatto sociale o generazionale magari più difficile da raggiungere in altri modi. Un riscatto affidato alla forza, alla bravura e anche alla fortuna della Bari.

Nei miei anni giovanili in città, ho sempre vissuto sul confine fra Carrassi e San Pasquale, due rioni fra loro divisi da via Re David, la mia strada preferita per andare verso il centro della città. Partivo da lì la domenica a ora di pranzo, in gruppo, con amici e parenti, alla volta del campo: andavamo allo Stadio della Vittoria, che era dall’altra parte della città, nella zona della Fiera del Levante.

Ci andavamo a piedi, rigorosamente: perché era domenica, e quei pochi mezzi pubblici che circolavano – le filovie elettriche, me le ricordo ancora con i loro lunghi bracci metallici tesi verso l’alto a toccare i fili elettrici da cui traevano l’energia per muoversi – erano quasi sempre in ritardo e non si poteva rischiare di arrivare tardi. E allora si partiva, tutta via Re David in giù fino all’estramurale Capruzzi, quindi si salivano gli scalini del ponte pedonale in ferro sulla Ferrovia e poi giù per imboccare Corso Càvur (a Bari si dice proprio così, Càvur con l’accento sulla a), da percorre tutto fino a che si vedeva il Margherita.

Poi a sinistra, Corso Vittorio Emanuele fino alla Prefettura: da lì deviazione sul lungomare, dove cominciava l’ultimo, lungo tratto di strada a piedi fino al campo. Quasi sempre, nel frattempo, si erano formati moltissimi gruppi di persone che ingrossavano man mano la lunga fila di persone: tutti maschi praticamente, a piedi, discutendo, chiacchierando, cominciando a fare ipotesi di formazioni e con la speranza di vedere una bella partita, magari chiusa con i 2 punti. Erano gli anni dei 2 punti per la vittoria, ed erano anche gli anni di lunghissime camminate a piedi.

Le automobili non avevano ancora invaso la città; i mezzi pubblici erano scarsamente affidabili in quanto a orari di transito alle fermate, e allora ci si armava di pazienza e coraggio e si camminava. Da una parte all’altra della città, calcolando sempre con attenzione distanze e tempi di percorrenza. Non era ancora esplosa la società della velocità, le cose si facevano con maggior consapevolezza della necessaria lentezza a volte richiesta. Internet, ovviamente, non era neanche nelle menti dei più audaci sognatori.

Il massimo era la radiolina, appoggiata all’orecchio sulle fredde gradinate dello Stadio della Vittoria, a sentire dalle voci di “Tutto il calcio minuto per minuto” come andavano le altre partite: si, le partite erano tutte in contemporanea, una sorta di grande stadio che occupava quel paio d’ore in tutta Italia, prima che il calcio diventasse oggetto di interesse smisurato per le televisioni e cominciasse lo spezzatino degli orari per le partite.

L’arrivo al campo, sempre con largo anticipo per trovare un posto a sedere, era a sua volta un rito: ci si fermava in lunghissime code allo sportello, passaggi stretti controllati da personale attento (mica tanto…) a controllare che tutti avessero in mano il magico biglietto di carta, come al cinema. C’era anche chi entrava con il trucco: porgeva il biglietto – che aveva “madre” e “figlia” da trattenere – in modo da farlo appena strappare. Poi, di corsa in cima alle gradinate e da lassù il biglietto veniva lanciato all’amico giù, magari appesantito da una molletta da bucato, in modo da poterlo riutilizzare, entrando così in due con lo stesso tagliando.

Quante se ne faceva per entrare a vedere la Bari… Ho sempre avuto il sospetto che qualche addetto all’ingresso sapesse del trucco, e in qualche modo agevolasse l’ingresso di ragazzi che magari non avrebbero avuto altrimenti la possibilità di entrare. Per la Bari questo e altro… Sulle gradinate, un tripudio di bandiere, cori e gente appassionata, e l’immancabile richiamo di chi offriva con tanto di vassoietto apposito il Caffè Borghetti; fino all’ingresso in campo dei giocatori, quando quasi tutto assumeva un contorno quasi magico.

Me ne ricordo ancora molti dei giocatori di quegli anni, dal capitano per antonomasia, Catalano (che di nome si chiamava Biagio), fino alla coppia di ali, a destra De Nardi a sinistra Cicogna. Poi la dinastia dei fratelli Loseto, con il più famoso, Pasquale detto ‘Ualin a rappresentarli degnamente tutti. Infine il centravanti goleador, quel Lucio Mujesan nato in Istria quando era ancora Italia, nel ’43. Il centravanti in grado di diventare capocannoniere di Coppa Italia e di vincere la classifica dei marcatori in serie B prima di provare (con qualche fortuna) anche l’avventura in serie A. Ho smesso poi di andare allo Stadio, ho smesso di vivere a Bari.

Non c’è più lo Stadio della Vittoria a fare da sfondo alla Bari: mi è capitato solo una volta di vedere una partita al San Nicola, una delle rare volte che mi è capitato di fermarmi a Bari in inverno di domenica. Mi sono sentito spaesato. Resto un nostalgico. Per me la Bari gioca allo Stadio della Vittoria, il mio battesimo con il calcio è stato quello. Anche se ora, cinquanta e più anni dopo, ripartito dopo l’ennesimo fallimento, finalmente torna ad affacciarsi nel calcio che conta. Già, peccato che il calcio, da allora, sia cambiato del tutto.

Sembra davvero un altro sport, perfettamente in linea con le necessità di una società della prestazione e totalmente gestito da procuratori da un lato e televisioni dall’altro. Non è comunque cambiato l’amore dei baresi per la Bari, anzi. Forse sono rimaste anche le discussioni accese nelle giornate infrasettimanali a giocare a “Patrun e sott”, o “Zumparidd”, rievocando gol sbagliati, gol subiti o a parlar male di un arbitro per una decisione avversa. In fondo, fanno parte dei riti che cementano il senso di appartenenza e di comunità.

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