X
<
>

Condividi:
5 minuti per la lettura

Non nascondo la profonda gioia interiore che ho provato quando lo scorso 25 novembre ho appreso dell’autorizzazione data da Papa Francesco al Prefetto della Congregazione per le cause dei santi, il cardinale Marcello Semeraro, a firmare il decreto di venerabilità del servo di Dio monsignor Antonio Bello, per tutti don Tonino. La Chiesa, cioè, ne ha riconosciuto l’eroicità nell’esercizio delle virtù cristiane. Già la visita del Papa sulla sua tomba, il 20 aprile 2018, ci aveva fatto intuire che questa figura di vescovo meridionale non aveva perso il suo fascino e la sua credibilità.

Quel giorno Papa Francesco lo definì un “credente con i piedi per terra e gli occhi al Cielo, e soprattutto con un cuore che collegava Cielo e terra”. Ho sempre avuto questa sensazione quando, da sacerdote in Puglia, ho potuto incontrare e ascoltare don Tonino: un uomo che aveva il sapore della terra e del Cielo, con una profonda spiritualità fatta di uno sguardo fisso su Gesù, e con una coraggiosa profezia, fatta di parole a volte di fuoco e di gesti sempre evangelici.

Delle tante cose che si potrebbero ricordare del nostro Venerabile, mi piace sottolinearne tre, con tre “P” (anche a don Tonino piaceva “giocare” con le parole nei suoi scritti, con l’intento catechetico di aiutarne la memorizzazione): Pace, Poveri, Parresia.

P come pace, anzitutto. È stato un appassionato operatore e profeta di pace. Aveva intuito, e non perdeva occasione per ricordarlo, che la pace era la chiave di volta su cui si reggeva tutto l’edificio dell’evangelizzazione.

Non era “un” problema etico, ma “il” principio etico. Diceva: “Dalla pace della coscienza dobbiamo passare alla coscienza della pace. Alla coscienza della pace! Sapere che essa è il bene ineludibile oggi per tutti quanti, credenti e non credenti!” (Scritti, IV, pag. 130). Ricordo il suo bellissimo discorso nell’Arena di Verona gremita dai membri del movimento “Beati i costruttori di pace” alla vigilia dell’assemblea ecumenica di Basilea, il 30 aprile 1989.

Invocò la coscienza di una chiesa più coraggiosa e profetica sul tema della pace. E a chi lo accusa di “orizzontalismo” e “antropologismo” (perché succede anche questo, ahimè) basterebbe leggere queste parole: “C’è una pace dei filosofi e c’è una pace di Cristo. La prima è quella prodotta dai nostri sforzi diplomatici, costruiti dai disagi delle cancellerie, frutto degli equilibri messi in atto dalle potenze terrene.

Al punto che, se una sola condizione va in crisi, si rompe il giocattolo e ruzzola tutto intero il castello. La pace di Cristo, invece, è quella che non esige garanzia, che scavalca le coperture prudenziali e che resiste anche quando crollano i puntelli del bilanciamento fondato sul calcolo” (Scritti, IV, p. 165). E concluse con un “In piedi, costruttori di pace”, che ora campeggia su una pietra accanto alla sua tomba nel cimitero di Alessano.

E come non ricordare il suo ultimo viaggio a Sarajevo, in piena guerra del Balcani, con 500 coraggiosi volontari della pace, con il corpo straziato dal cancro. Era contento e diceva: “L’Onu dei poveri è entrata dove neanche l’Onu delle Nazioni riesce ad entrare”. Quante volte l’abbiamo sentito evocare la convivialità delle differenze come principio trinitario dell’impegno per la pace!

E poi P come poveri. “Coraggio! Vogliate bene a Gesù Cristo, amatelo con tutto il cuore, prendete il Vangelo tra le mani, cercate di tradurre in pratica quello che Gesù vi dice con semplicità di spirito. Poi, amate i poveri. Amate i poveri perché è da loro che viene la salvezza, ma amate anche la povertà. Non arricchitevi”: sono le ultime parole “pubbliche” di don Tonino pronunciate il giovedì santo del 1993, in una cattedrale di Molfetta piena di gente, dodici giorni prima di morire. Don Tonino è stato un uomo povero: per nascita e per scelta.

Ha amato Cristo e in lui la povertà. Ha amato Cristo e in lui i poveri. Lo abbiamo visto vicino ad ogni povertà: fisica, economica, spirituale, morale… Non ho difficoltà a dire che è stato un “pater pauperum”. Così mi piacerebbe che fosse ricordato: padre dei poveri, che trovavano in lui un amico capace di ascolto e accoglienza, che si faceva carico della loro condizione. Non con lo stile della elemosina dall’alto, ma con lo stile della condivisione e della solidarietà. L’abbiamo visto accogliere in episcopio gli sfrattati, fondare una casa per i tossicodipendenti, preoccuparsi per gli immigrati… Sempre senza supponenza, senza alcuna aggressività, con la semplicità dell’uomo che ha nel Vangelo l’unica sua ricchezza.

E infine P come parresia. Un termine che spiega lui stesso: “Parresia, cioè libertà, franchezza di parola, capacità propositiva di dire le cose, proprio nel nome del Vangelo. (…). Parresia: alzarsi in piedi, avere il coraggio di parlare, insieme con gli altri” (Scritti, IV p. 65). Da vescovo di Molfetta e da presidente della sezione italiana di Pax Christi si è reso instancabile e franco annunciatore del Vangelo, anche quando questo gli procurava dolorose e ingiuste accuse, o ammiccamenti superficiali sulla sua ingenuità fanciullesca, fuori e dentro la chiesa. La parresia evangelica gli ha consentito di essere sempre a suo agio, davanti ai piccoli e davanti ai grandi della storia, senza fare sconti a nessuno, ma mai arrogante. Ne ha macinati di chilometri don Tonino! Mai domo, neanche quando il male lo aveva reso più debole.

La morte lo ha trovato “vivo”! Lo aveva chiesto lui stesso nella preghiera a Maria donna dell’ultima ora: “Piàntati sotto la nostra croce e sorvegliaci nell’ ora delle tenebre. Liberaci dallo sgomento del baratro. Pur nell’eclisse, donaci trasalimenti di speranza. Infondici nell’ anima affaticata la dolcezza del sonno. Che la morte, comunque, ci trovi vivi!” (Scritti, III, p. 123).

Quel 20 aprile 1993 ho pensato che non era giusto che don Tonino ci lasciasse così presto. Oggi dico che la sua stella splende luminosa nel cielo della nostra storia perché noi, instancabili cercatori di Dio come i magi, possiamo seguirla con la certezza che ci porterà da Cristo, “l’unico per cui vale la pena di vivere e di morire”, come diceva lui.

FRANCESCO SAVINO
Vescovo della Diocesi di Cassano allo Jonio

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE