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Gli impianti dell’acciaieria ex Ilva di Taranto

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Dieci anni per trasformare l’ex Ilva. È il tempo stimato dai dirigenti di Acciaierie d’Italia per riconvertire il siderurgico di Taranto prima con forni elettrici, poi col ciclo alimentato a idrogeno ed eliminare in via definitiva il carbone dell’area a caldo dell’impianto più grande e inquinante d’Europa. Hanno provato a spiegarlo ai sindacati dei metalmeccanici e ai governatori di Puglia, Michele Emiliano, e Liguria, Giovanni Toti, l’amministratrice delegata della nuova compagnia, Lucia Morselli, e il presidente Franco Bernabè.

L’incontro avvenuto a Roma, voluto fortemente dai rappresentanti dei lavoratori per chiedere chiarezza sul futuro del gruppo e dello stabilimento tarantino, ha visto la partecipazione del ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, del Lavoro, Andrea Orlando, e dei funzionari del ministero della Transizione ecologica che fa capo a Roberto Cingolani, e del Sud, di Mara Carfagna.

Un tempo, dieci anni, considerato eccessivo, lontano, quasi inimmaginabile dai segretari nazionali e locali di Fiom Cgil, Uilm, Fim Cisl e delle altre sigle sindacali. Un tempo che, secondo le intenzioni del governo pronto ad acquisire di fatto, a determinate condizioni, il pieno controllo del gruppo, vedrà 4,7 miliardi di investimenti complessivi e una riconversione in quattro tappe.

Tra tre anni, nel 2025, secondo il progetto non ancora illustrato nei dettagli, il gruppo tornerà alla piena occupazione e a una produzione di 8 milioni di tonnellate. In quell’anno gli investimenti in tecnologie innovative, alcuni già avviati, consentiranno, secondo le stime, già una riduzione di circa il 40 per cento di Co2 e del 30 per cento delle polveri sottili. Un piano che non convince del tutto per la sua indeterminatezze, che sembra improntato più che altro all’accesso nelle forme più diverse alla maggior quota possibile di risorse derivanti dal Piano di ripresa e resilienza (Pnrr).

E che, in realtà, coinvolgerebbe i soli lavoratori, circa 8 mila e 200, assunti da ArcelorMittal dopo il suo ingresso, lasciando al loro destino quelli in amministrazione straordinaria, in cassa integrazione dal 2018. Il progetto sembra convincere invece il governo, l’azionista pubblico che dovrà controllare operazioni e azienda e chiede pazienza e tempo. «Il piano è realistico ma non semplice – ha spiegato al termine dell’incontro Giorgetti -, il passaggio all’idrogeno e la gestione e le conseguenze degli aspetti occupazionali hanno bisogno di tempo».

Di mezzo c’è la creazione di una nuova società da parte dello Stato che dovrebbe curare la realizzazione e la gestione degli impianti per il preridotto (che sostituirà il carbon coke) da utilizzare nei forni elettrici e per la produzione di idrogeno. Una serie di passaggi delicati e complessi, che hanno a che fare con questioni tecniche, occupazionali e sociali. Un impianto senza il ciclo integrale e il riutilizzo dei gas prodotti dagli stessi altoforni necessita di enormi quantità di energia, al momento non disponibile a buon mercato.

Non solo. Il passaggio alla produzione cosiddetta verde diminuirà necessariamente il fabbisogno di manodopera, vista l’eliminazione dell’area a caldo che impiega oltre 3 mila addetti.
«Il governo farà la sua parte, continuerà a lavorare con spirito costruttivo mettendo ordine in un pacchetto di norme e di strumenti – ha spiegato Orlando – che consentano di gestire la fase di transizione verso il green di un settore strategico quale quello dell’acciaio. Occorre lavorare ad una legge speciale con cui individuare un ammortizzatore che non sia di emergenza ma che definisca un intervento più strutturato che appoggi tutti quei lavoratori che per via della transizione si troveranno in difficoltà».

Servirà quindi un programma con ammortizzatori sociali straordinari per affrontare la questione. «Siamo ancora molto lontani dal dettaglio degli investimenti – ha commentato la segretaria nazionale Fiom, Francesca Re David, che chiede un tavolo sindacale sulla vertenza-, delle risorse e dei tempi necessari alla realizzazione del piano stesso. Si tratta di scenari di lungo termine condizionati da elementi non disponibili alla contrattazione tra le parti, mentre registriamo l’assenza di manutenzioni e il sistematico ricorso alla cassa integrazione».

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