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Il compratore di turno estero conosce il nostro miracolo economico e vuole comprare oro e argenteria mentre la bassa politica litiga e svaluta tutto. Con il Pnrr corriamo e Fitto ha rifatto la macchina degli investimenti, ma non rinunciamo ad autoflagellarci. Così, oltre a fregare l’Italia, proviamo a fregare anche l’Europa. La nostra multiforme classe dirigente, a partire dalla politica, non riconosce la qualità degli staff anche quando funzionano, non persegue l’accordo sociale, disconosce perfino i primati manifatturieri, di servizi e turistici conseguiti. Ci piace essere gli ultimi. Quando siamo i primi, ci sentiamo a disagio. Siamo strutturalmente un Paese di piagnoni.

Le grandi rivoluzioni della storia si vedono solo a decenni di distanza. Dal 2015 a oggi l’economia italiana è diventata molto più competitiva, ma nessuno lo dice. Il merito andrebbe riconosciuto ai governi Renzi e Gentiloni e al ministro Calenda che hanno fatto la prima grande riforma europea degli incentivi fiscali permettendo alle nostre imprese di robotizzare i processi e innovare i prodotti, ma stanno antipatici e, quindi, facciamo sparire dal dibattito che siamo la prima economia europea come crescita post Covid e abbiamo un boom delle esportazioni che hanno superato i 600 miliardi e vedono regioni meridionali come la Campania superare regioni a storica vocazione manifatturiera tipo Marche e Friuli Venezia Giulia.

È il segno più evidente, l’ultimo, ma dal Pil alla nuova occupazione, dalla riduzione delle diseguaglianze e del rischio povertà alla ripresa degli investimenti pubblici, sono tutti gli indicatori che ci segnalano quotidianamente un Paese che si è mosso meglio degli altri nello scenario globale tempestoso post Covid e che, per di più, dopo decenni, lo fa per la prima volta da Nord a Sud. Il fatto che ragioni geografiche e storiche abbiano messo il Mezzogiorno al centro della sfida del capitale umano e dell’industria del mare, energetica e manifatturiera del nuovo mondo, che deve riunire le due sponde del Mediterraneo e cogliere la grande opportunità del continente africano, dovrebbe essere motivo di orgoglio nazionale e di messa in sicurezza della nostra manifattura, ma a noi piace ripetere a ogni ora e contro ogni evidenza che va tutto male e che ovviamente il Sud è un problema.

Come è possibile sopportare ancora il ronzio politico parlamentare di chi continua a ripetere la favola del definanziamento di opere del Pnrr quando proprio il lavoro di Fitto ha messo in sicurezza ciò che noi non avremmo potuto rendicontare e che, quindi, l’Europa ci avrebbe tolto? Perché è così difficile capire che si sta facendo con gli accordi regionali di coesione e sviluppo tra Stato e Regioni quello che questo Paese avrebbe dovuto già fare venti anni fa se voleva guadagnare in competitività, capacità effettiva di spesa, coesione produttiva e sociale? Perché è così complicato riconoscere che la strada dei poteri sostitutivi e di supplenza indicata da Draghi, con il sollievo delle semplificazioni e di una regia centrale, è quella che si sta oggi percorrendo allargandola ulteriormente e che, soprattutto, è quella assolutamente necessaria, oltre che giusta?

No, no, no. Va tutto male, solo segnalare ciò che funziona, statisticamente accertato, significa lavorare di fantasia. Non è vero, ma va così a reti unificate. I politici, poi, sono tutti bloccati. Sono tutti impegnati alla ricerca di piccoli successi elettorali. Questo Paese, nella sua multiforme classe dirigente, a partire da quella politica, ha difficoltà a riconoscere la qualità degli staff anche quando funzionano, non persegue l’accordo sociale, disconosce perfino i primati manifatturieri, di servizi e turistici conseguiti. Non riescono ad alzarsi in volo. Fanno tutti come le galline, sgambettano e starnazzano in superficie. Facciamola breve. Non si riconosce mai il valore altrui.

È quasi un principio costitutivo del nostro modo di stare insieme. Perché siamo strutturalmente un Paese di piagnoni per cui sentiamo di essere più bravi e onesti degli altri flagellandoci. Questo determina una spirale perversa che porta a un non riconoscimento della capacità produttiva del Paese che non discende da un leader politico che viene dal cielo, ma dallo stato organizzativo dei nostri ministeri, dall’innova – zione raggiunta dal nostro sistema produttivo, dalla capacità di fare tutti insieme accordi sociali con una visione di lungo termine. Avere consapevolezza di ciò aiuterebbe a valorizzare il molto già fatto e rappresenterebbe un poderoso volano per il molto ancora da fare, ma questo noi non lo vogliamo fare perché tutto deve sempre essere ridotto a una lotta tra guelfi e ghibellini.

Prima di ogni cosa viene il panpoliticismo. Tutto è bassa politica. Così scompare la coscienza di un Paese che sa fare e che può fare ancora di più. C’è il rischio concreto che se ne accorgano prima fuori che in casa del miracolo economico italiano. Al punto che verranno sempre più determinati a comprare i pezzi pregiati del nostro Made in Italy. Ovviamente, molto presto, quando succederà, saremo pronti a piangere versando lacrime ancora più copiose e faremo a gara a chi si lamenta a voce più alta della potenza finanziaria di turno cinese, americana, francese, tedesca e così via. Ci piace essere gli ultimi. Quando siamo i primi, ci sentiamo a disagio. Che peccato!


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