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di LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
La scomparsa di Giuseppe Bonaviri rappresenta un grave lutto per la letteratura
italiana nella quale lo scrittore siciliano occupava una posizione di grande rilievo. La sua vasta produzione – oltre quaranta volumi fra romanzi, racconti,
poesie, saggi, opere teatrali -, la varietà dei suoi registri narrativi, la ricchezza degli stimoli intellettuali di cui è stata densa la sua attività hanno assicurato a questo scrittore “irregolare” una precisa collocazione. Sarebbe riduttivo “sicilianizzare” Bonaviri, quasi forma di ghettizzazione, come se la
sua validità fosse ancorata esclusivamente alla sua terra di origine. Sia le tematiche che i tratti stilistici trattati dallo scrittore nel corso della sua pluridecennale attività mostrano la molteplicità dei suoi approcci, dei linguaggi da lui prescelti, delle dimensioni nelle quali colloca le vicende di cui tratta,
compresa, e non ultima, quella onirica. E’ un’attività che parte da Il sarto della strada luna (1954), ispirato alla vita di suo padre che tanto piacque a Elio
Vittorini che lo pubblicò nei Gettoni (e che sbagliando lo ritenne opera da inscrivere nella cultura proletaria) a Divina foresta (1969) attraverso Notti
sull’altura (1971), La beffaria (1975), Dolcissimo (1978), a Novelle saracene (1980), E’ un rosseggiar di peschi e di albicocchi (1986), e così via. In realtà uno scrittore va letto; richiede, cioè, una conoscenza diretta, perché se ne possano cogliere le valenze, le suggestioni, la carica di rappresentazione, ma
anche il potere evocativo. Eppure, non sarebbe giusto sottrarre allo scrittore di Mineo la funzione di altissimo testimone della propria cultura, di quella terra
che ha contribuito a rappresentare al massimo dei suoi valori estetici. La cultura popolare siciliana, al di là di eventuali esplicite citazioni, ha fornito a Bonaviri modalità espressive di pensare, forme consolidate di agire, influenzando sia direttamente – le fiabe che la madre, “Decameron vivente”, narrava ai suoi cinque figli – sia indirettamente il suo racconto, quale si è dispiegato per oltre cinquant’anni. Anche per Bonaviri è possibile parlare di una Sicilia come metafora, come lo è per Sciascia, come – e lo si è già ricordato in questa rubrica – è possibile parlare per Corrado Alvaro, Fortunato Seminara, Saverio Strati, Mario La Cava, di una Calabria come metafora, come per Ignazio Silone è possibile parlare di Abruzzo comemetafora, e così via. In Bonaviri è fondamentale il rapporto con la natura e non è un caso che il suo ultimo scritto edito sia dedicato alla primavera: “la mia prima memoria della primavera è la presenza in tutto il territorio di Mineo di una grande successione di petali che si alzavano dagli alberi e portati dal vento si posavano sui balconi, sulle finestre, o con leggiadria estrema sui capelli dei contadini che andavano a cercare, lungo l’intreccio delle vie, un posto per sedersi al sole mangiando del pane casereccio con una felicità che si diffondeva dai loro occhi. Nel mio ricordo, i petali che avevano maggior fascino erano quelli dei mandorli, per la loro estrema bianchezza davano il senso di un Dio che ci trascendeva e nel nostro
animo profondo ci portava il senso di una deità sconosciuta. Ma, al di fuori di queste considerazioni di ordine mitico-religioso noi ragazzi e bambini, in
primavera, acquistavamo il senso di una libertà assoluta dentro cui tutto si poteva fare o poteva accadere apportando un gioco e un ritmo a tutte le cose rinascenti. Quando mio padre, conosciuto come ‘il sarto della stradalunga’ ci portava in maggio sull’altopiano di Camuti per godere della nostra libertà che definirei cosmica, essendo io e mio fratello ancora bambini, ci metteva dentro
due cofani che l’asino, chiamato Rondello in onore del paladino Buovo D’Antona, portava sulla groppa, noi guardavamo meravigliati tutto quanto era sopra di noi: l’azzurro cielo, gli uccelli che remigavano nell’aria e perfino i tramonti indorati” (“Il Corriere della sera”, 23 marzo 2009).
Sono i dettagli, i rimasugli, i tratti apparentemente minuti che fanno una cultura che gli antropologi indagano, che i grandi scrittori e poeti tendono a restituire filtrati dalla loro sensibilità, come opera d’arte. Si è accennato alla vastità della produzione di Bonaviri; è che per lui la scrittura si costituiva come manifestazione di vita, esercizio di verità, spazio irrinunciabile
per la ricerca di essa e per la sua affermazione. In uno scritto, come questo,
che vuole ricordare, per quanto sinteticamente, i tratti essenziali di Giuseppe Bonaviri non possono non essere ricordate anche alcune modalità del suo carattere,
schivo e generoso. Tra queste la dimensione sommessa, il senso dell’ospitalità; ho avuto modo constatarle direttamente quando, alla fine degli anni Sessanta, lo andai a trovare a Frosinone, assieme a mia moglie Bianca e ad Angela Giannitrapani, finissima anglista.
Bonaviri ci accolse nella sua casa con cordialità, ci volle ospiti, si intrattenne con noi in maniera semplice, mai banale, intellettualmente vivace. Non mi fu possibile incontrarlo, invece, ad Acri due anni fa, quando gli
conferimmo il Premio Arena che purtroppo non poté ritirare per ragioni di salute e che resta solo come ultimo omaggio reso a uno degli scrittori più significativi
del nostro Novecento. Bonaviri così conclude il suo già ricordato inno alla primavera, che è anche un inno alla felicità: “ringraziamo Iddio che ci ha
concesso di vivere questa fetta di realtà cosmica e multirigeneratrice. Vivendo noi sotto questa enorme cupola galattica dobbiamo essere felici che arrivi questa
ondata di magia, di luce di petalizzazione che resta, checché si dica, la caratteristica fondamentale della primavera”. E’ questo cielo, è questo volo di uccelli che Giuseppe Bobaviri, “cantore delle origini con ansia d’infinito”, ha interiorizzato e ci ha restituito come opera di poesia. Ed è per questo che, come ci ha ricordato Hölderlin, ciò che dura lo fondano i poeti.

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